“I can't even tell if I miss my life”: come se parlassi da un punto di vista ormai così separato dalla realtà, estraneo ai suoi intralci e fardelli, che anche il concetto di te stesso comincia ad assumere contorni vaghi, sempre più indefinibili e distanti. Sei immerso nel flusso, connesso al suono e al tempo, e ogni elemento che vorrebbe frenarti, contrapporsi allo scorrere della musica, compresa quella vita che in passato avresti definito “tua”, finisce per svanire svia, come il ricordo inafferrabile di un sogno che al mattino non sai più dire.
“I can't even tell if I miss my life” canta con voce incantata Joseph Stevens dentro Pad, la canzone che e apre e dà il titolo al nuovo album dei suoi Peel Dream Magazine, e da quel che posso intuire (e giudicare dal tono tutto sommato entusiasta di queste canzoni) sembra una condizione idilliaca, praticamente un’estasi. Il nuovo disco del musicista statunitense, che da un paio d’anni si è trasferito a Los Angeles, sottrae alla sua scrittura la componente kraut e motorika, quei guizzi Stereolab o My Bloody Valentine che infiammavano il debutto Modern Meta Physic e il successivo Agitprop Alterna, e lascia ora emergere la tavolozza vintage composta da morbidi vibrafoni, morbidissime nubi di synth o Farfisa, flauti liquidi e chitarre acustiche, anche un banjo e un po’ di vari campanelli sparsi. Al tempo stesso, il ritmo si dissolve in tante piccole bossanove ipnotiche, o in drum machine tascabili appena accennate. Quello che resta è un acquerello post- Bacharach, un paesaggio di library music ricco di arrangiamenti lussureggianti di archi, atmosfere tanto serene da risultare inqueitanti, come la comune new age Anni Settanta evocata in Self Actualization Center, con tanto di voce suadente del guru che invita senza ironia: “I’d like to begin today with a moment of serenity, if you could all hold hands with you brothers and sisters”.
Nella presentazione dell’album si fa riferimento esplicito alla musica degli High Llamas, ma tra i tanti possibili riferimenti e influenze, io aggiungerei anche certi dischi della prima Elefant Records per quell’approccio giocoso e lieve al chamber pop, a volte forse un po’ narcotico, ma comunque affascinante, di una bellezza in un solo gesto ariosa e sussurrata, un po’ fuori dal tempo, o forse - appunto - fuori dalla nostra vecchia vita, dettaglio che per quanto mi riguarda non è qualità di poco conto.
Nella presentazione dell’album si fa riferimento esplicito alla musica degli High Llamas, ma tra i tanti possibili riferimenti e influenze, io aggiungerei anche certi dischi della prima Elefant Records per quell’approccio giocoso e lieve al chamber pop, a volte forse un po’ narcotico, ma comunque affascinante, di una bellezza in un solo gesto ariosa e sussurrata, un po’ fuori dal tempo, o forse - appunto - fuori dalla nostra vecchia vita, dettaglio che per quanto mi riguarda non è qualità di poco conto.
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