"Deindustrializzazione e popular music" (quarta e ultima parte)

Punk e ‘post-punk’ a Manchester, Düsseldorf, Torino e Tampere

(Un piccolo bignami a puntate di 
scritto da Giacomo Bottà - prosegue da qui)

The Hacienda Apartments - Manchester

Eccomi con un clamoroso ritardo alla season finale del mio bignami. La tesi principale di questo libro è che dopo la deindustrializzazione, musica e sfera socio-economica non sono più in sincrono. È ancora possibile girare un video come quello di Martha and the Vandellas che ballano nel reparto verniciatura di una fabbrica, ma il suo significato sarà per sempre diverso, per sempre legato a quello che qualcuno chiama ‘patrimonio culturale’ e qualcun’altro ‘memoria’. Cosa è successo esattamente?
Non lo so (spoilerone!) ma ho cercato di dare una risposta basandomi su un po’ di roba di critica culturale degli Anni Settanta, più o meno coeva con il periodo che ho qui preso in considerazione. In particolare, una specie di illuminazione è stata leggere un saggio di Fredric Jameson, dove per descrivere la dialettica di Max Weber, soprattutto in relazione all’Etica Protestante e lo Spirito del Capitalismo (che qualcuno qua avrà letto per preparare un monografico di filosofia della storia, come è capitato a me 25 anni fa, o di sociologia dei processi culturali), introduce il termine mediatore evanescente
In pratica, secondo Jameson, il protestantesimo-come-ce-lo-spiega-Weber è stato fondamentale nella transizione tra l’epoca pre-capitalistica e quella capitalistica, ha fatto da ponte tra due sistemi che si escludono a vicenda e prendendo questa funzione ne è uscito radicalmente cambiato, svanito, deprivato della sua funzione iniziale. La musica delle città industriali ha avuto una funzione simile, ha creato un ponte, una transizione, una traduzione di significati e di pratiche dalla città industriale, basata sulla produzione, alla città post-industriale, basata sul consumo. La musica ha anticipato e facilitato questo passaggio, avendo caratteristiche di entrambi questi mondi. In pratica, se invece di lavorare in fabbrica, siamo seduti davanti ad un patetico frappuccino in una caffetteria, cercando di terminare un progetto che ci verrà pagato tramite la nostra partita IVA è anche per colpa dei Joy Division: non per niente si chiama "gig economy". Il punk e il post-punk non sono morti, ma la loro funzione sociale è cambiata radicalmente: è passata da essere una presa di posizione subalterna e critica, ma anche comunitaria e celebrativa ad una funzione che nel libro chiamo di catalizzazione culturale, soprattutto in relazione alle città contemporanee. 
Impacchettato, ripulito, digitalizzato e curato, il post-punk è diventato un ingrediente importante nella valorizzazione del patrimonio immobiliare urbano e nella gentrificazione di aree centrali post-industriali. Tutti sappiamo che The Hacienda FAC 51, chiusa in seguito alla bancarotta e a una campagna di demonizzazione della club culture nell’Inghilterra post-thatcheriana, oggi ospita un complesso di costosi appartamenti per uomini d’affari conservando lo stesso nome della discoteca. Esiste una quantità di esempi simili in tutte le città che ho preso in considerazione nel libro.

Ogni due settimane un giornalista del Guardian scrive che grazie alla crisi economica, al COVID, alla crisi economica post-COVID, alla crisi economica pre-COVID,  i rave stanno tornando, il post-punk sta tornando, i free festival stanno tornando; spesso l’articolo è accompagnato da qualche foto di studenti che buttano indietro la testa ballando sotto un ponte della ferrovia. Sono cose bellissime, dovreste provarci tutti a ballare sotto il ponte della ferrovia almeno una volta nella vita. La musica ha delle funzioni statiche, ad esempio quella di darci piacere, ma ne ha altre che sono dinamiche, che riflettono condizioni e articolazioni complesse di cultura, economia, politica, società; ballare sotto il ponte della ferrovia nel 2020 è e non è come farlo nel 1981.  
Qualche giorno fa, non sapendo cosa fare mentre fuori pioveva e a vacanze ormai finite (qui si fanno in luglio e non in agosto) ho cominciato una session rabdomante di YouTube che mi ha portato qui:


Poco più di un anno fa, Frankie Stubbs, il cantante dei Leatherface, ha eseguito in acustico Dead Industrial Atmosphere in un vecchio porto industriale di Sunderland, la città di origine del gruppo. I Leatherface sono stati un gran gruppo di punk melodico dei primi anni Novanta e Dead Industrial Atmosphere è uscita in Mush, un disco del 1991. È una canzone bellissima, di quella cosa inglese che chiamavamo emo (giuro!), dove i cantanti andavano in giro con il cuore cucito sulla manica anche se suonavano roba abbastanza furiosa. È un po’ come se tutto il mio libro alla fine arrivi lì, a Stubbs con un’acustica in mano, circondato da un porto arrugginito in attesa di essere trasformato in un’autostrada, mentre tutto per ora puzza di birra scadente e guano.    


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