"Deindustrializzazione e popular music" (seconda parte)

Punk e ‘post-punk’ a Manchester, Düsseldorf, Torino e Tampere

(Un piccolo bignami a puntate di 
scritto da Giacomo Bottà - prosegue da qui)

Aerial View of Downtown Detroit and Rennaissance Center - 2008

Cosa è la ‘musica della città industriale’? Normalmente uno pensa all’industrial, ma l’industrial in realtà è molto più connesso al mondo dell’arte (dai Throbbing Gristle ai Laibach, dagli Einstürzende Neubauten ai Test Dept) che a quello delle fabbriche. 
La musica della città industriale nasce con le città industriali; ad esempio con l’industrial folk britannico del Diciannovesimo Secolo. Si tratta di folk ‘mutato’, dove nuovi testi su vecchie melodie raccontano di migrazione, lotta sindacale e gravi incidenti nelle aree minerarie. È una tradizione quella dell’industrial folk, che partendo dalle città dell’Inghilterra del nord arriva fino a Stefano Giaccone, Bruce Springsteen e Billy Bragg, passando per Alan Lomax e Peter Seeger. 


Il blues di Chicago è anch’esso blues ‘mutato’ dalla realtà industriale, è un blues di riff pesanti inesorabili come presse e di amplificatori valvolari che imitano i treni merci, suonato da gente emigrata dal sud verso le grandi città del nord. 
Il blues nasce come musica nera rurale suonata nei juke joints del delta del Mississippi, che a Chicago e Detroit e in altre città industriali si elettrizza e urbanizza. 


Motown Records - Histville U.S.A.
Questa cosa della mutazione è importante: spesso le città industriali non inventano linguaggi musicali nuovi, ma li ridigeriscono e riadattano alla loro maniera. 
Un esempio eccezionale di articolazione della città industriale in musica è sicuramente il caso della Tamla/Motown. Berry Gordy, il fondatore della casa discografica, ha lavorato per la Ford prima di dedicarsi all’industria musicale. Da qui il mito delle hit che escono dalla catena di montaggio della Hitsville U.S.A. in Grand Boulevard come automobili, con i Funk Brothers, il gruppo di turnisti, a assemblare tracce per cantanti che vanno da Martha Reeves a Stevie Wonder. Ciò è corroborato dall’insistenza suprema per il beat; ci sono due pezzi di Martha and the Vandellas, dove a fortificare il rullante, il produttore Ivy Jo Hunter invece del classico tamburello, usa delle catene da neve e un cric, roba da città delle macchine per davvero.


Tutti questi elementi si ritrovano in questo vecchio video, passato al programma televisivo It’s What’s Happening, Baby. Nowhere To Run è un singolo di Martha and The Vandellas del 1965. Il video è stato girato nella catena di assemblaggio Dearborn a River Rouge, dove venivano costruite le Ford Mustang. Questo episodio dello show, finanziato dall’Ufficio per le pari opportunità economiche degli Stati Uniti, aveva ospiti un sacco di artisti di colore, latinx e di altre minoranze del paese. Rivela una sinergia notevole tra l’industria delle auto e quella musicale, basate entrambe su operosità e attivismo. Gli Anni Sessanta sono anni nei quali le città industriali ancora pulsano di un’attività che scorre tra le fabbriche e le sale da ballo, tra i cortei per i diritti civili e le camere da letto, tra gli scioperi e i supermercati, ma che presto prenderà una piega più violenta nelle strade di Detroit, ma non solo. 

Düsseldorf
Tra Detroit a Düsseldorf ci sono migliaia di chilometri e l’oceano Atlantico. L’Atlantico nero solcato prima da ‘conquistatori’ e poi da navi di schiavi, ma anche da suoni e ritmi che sono stati appropriati e ibridati, spesso lungo assi di disuguaglianza razziale e sociale. I Kraftwerk nascono come gruppo che si muove tra il jazz-funk nero e lo sperimentalismo classico, con organo elettrico e flauto, per diventare poi i robot teutonici con i laptop e gli show in 3D che conosciamo tutti. Non è un caso che il singolo che li rivela al mondo abbia a che fare con le autostrade. C’è un asse che da Detroit arriva fino alla Germania e che passa attraverso le catene di montaggio, il rombo dei motori e il percuotere pezzi di metallo trovati nelle discariche. I Kraftwerk sono degli abilissimi dissimulatori e si impossessano di un termine straniante per descrivere la loro musica: industrielle Volksmusik, musica popolare industriale. Volksmusik vuol dire musica popolare, nel senso più ‘basso’ e ‘autentico’, del termine; la vera musica delle vere classi popolari, che passa dallo jodeln delle alpi bavaresi fino ai canti dei pastori sardi. Come fa quindi la Volksmusik a essere industriale, cioè legata ad uno sradicamento delle ‘radici’ popolari in nome della proletarizazzione? 
Questa contraddizione tra presunte radici sradicate e società industriale è il concetto - come vedete abbastanza fumoso - dietro il quale i Kraftwerk si nascondono e allo stesso tempo affermano una totale e organica derivazione industriale e teutonica, negando quindi ogni influenza black. Tra l’altro anche i Pere Ubu usavano l’espressione industrial folk per descrivere la loro musica. Paradossalmente è proprio nelle comunità nere delle città industriali degli Stati Uniti, che i Kraftwerk trovano più successo e più comprensione per il loro suono. Certo, ci sarebbero anche i Depeche Mode e i Soft Cell, ma loro hanno semplicemente continuato a fare musica pop inglese con i sintetizzatori invece delle chitarre, invece a Detroit hanno inventato la Techno, a Chicago la House e a NYC l’Hip-Hop, dite poco. 
[continua]

 

Commenti