Punk e ‘post-punk’ a Manchester, Düsseldorf, Torino e Tampere
Nonostante non ci siamo mai incontrati di persona, conosco Giacomo Bottà dagli inizi di questo blog, quando mi fece ascoltare la sua prima band, gli Interflug. Negli anni Giacomo ha poi lanciato diversi altri progetti musicali DIY (il più recente si chiama Hopeatee), e qui li abbiamo suonati più o meno tutti. Nel frattempo si è trasferito in Finlandia, dove mi pare di capire sia diventato uno scienziato famoso. Ora ha scritto "Deindustrialisation and Popular Music", un ponderoso saggio dedicato al post-punk e alla sua relazione con certe città grigie. Da quello che se ne può leggere in anteprima mi incuriosisce parecchio, e così ho chiesto a Giacomo se aveva tempo e voglia di scriverne una specie di Bignami per polaroid. Ne è venuto fuori praticamente un magnifico libro parallelo (grazie Giacomo!), che pubblicheremo a fascicoli settimanali per tutto il mese di luglio. Queste sono le rinfrescanti letture sotto l'ombrellone che ci piacciono!
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Cominciamo dall’inizio: sono ai primi anni di liceo a cavallo tra anni ottanta e novanta e per uno scambio di un paio di settimane, sono a Wuppertal, una cittadina abbastanza grigia della Renania Settentrionale-Vestfalia, ospite della famiglia più o meno benestante di uno studente del luogo. In casa c’è una specie di festa / ricevimento per un’amica di famiglia che dopo il divorzio o un burn-out si è data all’arte industriale. La casa è costellata delle sue opere, tra le quali un’altissima struttura di barre metalliche arrugginite recuperate da un cantiere.
Il jet-set locale mangiucchia e borbotta, fuma e bevicchia, fino a notte fonda, quando l’artista decide di andarsene. Ha passato tutta la serata seduta a conversare di roba per me incomprensibile, ha un portacenere di fronte con un mucchietto di cenere e cicche che assomiglia vagamente ad un modello del Cervino e varie bottiglie vuote. Mentre s’incammina verso l’uscita, sta signora tedesca estrae dalla borsetta una barra di metallo e comincia a percuotere selvaggiamente la sua opera. Minuti e minuti di rumore e riverbero. Ospiti in silenzio ad ammirarla. Io non capisco esattamente cosa sta succedendo, ma resto, come si dice, rapito dalla cosa. Da qualche parte nella mia testa capisco – o forse annoto per capirlo in seguito - che quel particolare suono di metallo su metallo, ha qualcosa a che fare con tutto quello che mi circonda. Con la Schwebebahn, questa bizzarra metro sospesa su strutture metalliche che prendo tutte le mattine per andare a scuola, con le fabbriche vuote, con quelle ancora in funzione, con la patina di ruggine e fuliggine che ricopre gli edifici, che definisce il cielo e che ricopre l’orizzonte. Insomma con tutto questo grigio, nero, marrone scuro, beige sporco che mi circonda. Non è un caso che Friedrich Engel sia nato qui, che i Kraftwerk, i D.A.F., Die Krupps e tutti gli altri abbiano cominciato a provare a una mezz’ora di treno locale da qui.
Il mio libro comincia più o meno così. La nota autobiografica serve a creare autorevolezza e a trascinare il lettore dentro il testo, che si fa invece man mano sempre più illeggibile, grazie a teorie mal digerite e tentativi di farsi strada dialetticamente tra altri libri della stessa disciplina. Come una specie di Benjamin Britten, qui invece tenterò di spiegare di cosa parla il mio mattone, in maniera articolata ma semplice, grazie soprattutto all’aiuto di YouTube.
Deindustrializzazione e Popular Music parla di un certo tipo di ritmo e di suono e del loro essere o meno un’articolazione della città industriale e della sua crisi. La deindustrializzazione è un processo di lunga durata che ha i suoi primi sentori già a partire dall’inizio del Ventesimo Secolo, ma che ha un’impennata improvvisa e sconvolgente tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Ottanta.
Deindustrializzazione e Popular Music parla di un certo tipo di ritmo e di suono e del loro essere o meno un’articolazione della città industriale e della sua crisi. La deindustrializzazione è un processo di lunga durata che ha i suoi primi sentori già a partire dall’inizio del Ventesimo Secolo, ma che ha un’impennata improvvisa e sconvolgente tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Ottanta.
In tedesco si chiama Strukturwandel, cambio strutturale, cioè una trasformazione dei cicli produttivi che ha effetti devastanti per la classe lavoratrice e per intere città in tutto il ‘vecchio Continente’ (e non solo, ma il mio libro è limitato all’Europa). In pratica, improvvisamente, città che avevano come unico paradigma di sviluppo la produzione industriale si ritrovano private di essa, con come conseguenze immediate fabbriche chiuse, disoccupazione e tensioni sociale. Città pianificate e organizzate in nome della produzione industriale si ritrovano a doversi ‘reinventare’ o a implodere piano piano, come i tetti dei capannoni vuoti. In un certo senso, la deindustrializzazione non è mai proprio finita, ha una coda lunga, di problemi mentali, tensioni familiari irrisolte e di spazi produttivi in rovina, ancora vuoti, inutilizzati da decenni.
Quando pensiamo al punk, all’industrial, all’EBM, all’hardcore adesso, pensiamo a generi stilizzati su quegli spazi e su quelle città in rovina. Sono generi che grazie alla loro origine temporale e spaziale evocano ancora oggi tutto questo peso e spesso lo feticizzano. Oggi è fin troppo facile andare a teatro, a ristorante, spesso addirittura in palestra in uno spazio che è stato creato per la produzione industriale di oggetti che vanno dalle automobili ai cucchiaini, dagli ascensori agli spilli e che ha cambiato funzione. Questa funzione spesso si è trasformata dalla produzione al consumo. Se prima si andava in fabbrica a fare qualcosa, adesso ci si va per consumare qualcosa, dai mojito ai tapis roulant. Nel libro cerco di spiegare come certe scene musicali, in città industriali in crisi, abbiano mediato questa svolta, in chiave sonica, tra produzione e consumo. [continua]
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