The world feels strange

THE STROPPIES - LEVITY

Ricordo un meme visto su tumblr chissà quando. Alla fine di un vecchio cartone animato, Bugs Bunny citava lo scrittore americano Elbert Hubbard: “Ehi, non prendete la vita troppo seriamente. Tanto, alla fine, non ne uscirete mai vivi”. Il gioco, ovviamente, era tutto nel contrasto tra il cinismo del piccolo aforisma e l’espressione gioviale del coniglio intento a sgranocchiare la sua carota. “That’s all, folks: era la vostra vita, addio”, sembrava voler essere la morale di quella sconcertante scenetta.
In qualche modo, quel meme mi è tornato in mente ascoltando il nuovo album dei nostri cari Stroppies. "Il mondo sembra strano e, a sua volta, mettersi a fare musica pop sembra ancora più strano. Ci serviva una sana dose di leggerezza per trovare un significato nel nostro processo creativo”, ha spiegato la bassista Claudia Serfaty. Quella stessa leggerezza che finisce per dare il titolo a tutto il lavoro, Levity, e che viene invocata come antidoto sia al grave presente, sia alla struttura di queste nuove canzoni.
Levity è il secondo lavoro sulla lunga distanza per il quartetto di Melbourne, e per molti aspetti può essere considerata un’opera speculare (o forse complementare?) al debutto Whoosh! del 2019. Tanto quello inseguiva un jangle pop conciso, frugale e travolgente, tanto qui gli Stroppies lavorano su forme più espanse, a volte più rumorose e stratificate, altrove più scure e ipnotiche. In questo senso, il singolo di apertura The Perfect Crime (che a un primo ascolto non mi aveva molto convinto) introduce il discorso in maniera efficace e trova il suo senso in scaletta, anche nel dialogo con la successiva Smilers Strange Politely. Le melodie di queste dieci nuove canzoni si fanno spesso più introverse, e in generale Levity aggiunge arrangiamenti più articolati, con suoni di chitarra più mutevoli, dietro cui affiorano anche synth, loops e addirittura una fisarmonica, grazie anche all’innesto del nuovo componente Zoe Monk, già visto in azione in altre band della scena post-punk cittadina come Eggy, Thibault e Opals.
Levity, a dispetto del titolo, è stato un disco più difficile da registrare. Nato durante i mesi del lockdown, come spiega l’altro fondatore della band, il chitarrista Gus Lord, il disco ha risentito delle "minori opportunità di incontrarsi e scambiare idee in modo collaborativo, una consuetudine che aveva sempre caratterizzato il nostro lavoro in passato. Questa volta, invece, le canzoni sono state sviluppate in isolamento e in seguito condivise digitalmente, sviluppandosi con lentezza da remoto e dando frutti solo quando siamo riusciti a ritrovarci tutti insieme nella stessa stanza. Penso che questo abbia avuto un grande effetto sulla scrittura e la registrazione delle canzoni".
Quando si parla degli Stroppies, sembra inevitabile citare la Flying Nun. Ecco, se vogliamo farlo anche in questa occasione, si può forse dire che in Levity la band di Melbourne sembra preferire l’aspetto meno scintillante e indiepop di quella tradizione, spingendo invece su un carattere più art-punk, muscolare, sferragliante oppure ossessivo. Un paio di eccezioni brillano in scaletta (su tutte: Up To My Elbows) e confermano la capacità che gli Stroppies hanno da sempre di tradurre in canzoni fulminanti e taglienti un certo entusiasmo e una certa frenesia. La maniera migliore di mettere in pratica quella “leggerezza” di cui sentivano il bisogno. Bugs Bunny approverebbe.


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