And my feet are stuck in stone
But my head's in the clouds
This way I stumble
And step by step I roam
The planet that you call home
Nei giorni in cui ascolto il nuovo disco dei Notwist il governo italiano sta cadendo, la distribuzione dei vaccini contro il Covid-19 è diventata all’improvviso incerta, e tutti quelli che conosco si sono messi a parlare senza sosta dentro un nuovo social chiamato Clubhouse. Io lavoro da casa, dalla scrivania vedo il cielo sopra Bologna, quasi sempre senza colore. Nei giorni in cui ascolto il nuovo disco dei Notwist sto cercando di non bere caffè e di non cedere al disordine, e la vertigine ha la forma, in apparenza tranquilla, di un pomeriggio d’inverno, mentre è quasi un anno che siamo chiusi qui dentro.
Vertigo Days è un titolo bellissimo, soprattutto se lo penso nella voce di Marcus Acher, così distante eppure così scrupolosa nel suo aggirarsi attorno alle melodie. Una voce che, a volte, sembra quasi cantare in silenzio, tra sé e sé, come la voce di chi si è reso conto che la vertigine è ormai il punto di contatto, è dentro casa, è un’abitudine. E anche rendersi conto di tutto questo diventa una nuova vertigine.
«The situation, which everybody experiences at least once in their lives, that everything can change from one moment to the other, and nothing is guaranteed, got a whole new and global meaning, as the world was upside down. But also the strange, surrealistic atmosphere of the first lockdown [and] our isolated, concentrated working on the music while the world around us seemed to collapse, influenced the music very much. On one hand [it felt] very real, with too many problems at once to digest, on the other hand [it felt] like a dream or a cheap B-movie. So the album is like a soundtrack to these times—like a surrealistic dream, but also very awake and real».
Lo hanno notato in tanti, e anche io l’ho sentito sulla pelle: era dai tempi di Neon Golden che la musica dei Notwist non colpiva così a fondo ed emozionava con tanta forza. Non c’entra soltanto la ben nota capacità di mescolare con la consueta eleganza orchestrazioni glaciali ed elettronica in frantumi, ritmi kraut e squarci di purezza acustica, quell’incessante saturare e scavare, come nessun altro. Vertigo Days si apre con un’immagine di stelle che non servono più a orientare il cammino, ma si chiude tornando sulle stesse parole: l’ultima canzone che riprende l’introduzione, e la riscatta aprendosi a una specie di speranza: “Now that you know how much it hurts / Won't save you from falling into love again”.
Da un lato, i Notwist hanno descritto l’album come un’unica e lunga suite, in cui i vari temi si compongono e “feel more like one long poem”. Ma, dall’altro, il disco vive in una circolarità che è al tempo stesso condanna e promessa, responsabilità e limite: “No more runaway from now / No more runaway from here”. Sembra un piccolo e innnocente scioglilingua da giocare in un ritornello, ma nel quadro dei Notwist diventa un cardine su cui tutte le altre figure ruotano.
E pur avendo riempito il disco di ospiti e preziose collaborazioni (Saya dei giapponesi Tenniscoats, il musicista americano Ben LaMar Gay, il clarinettista e compositore jazz Angel Bat Dawid, la cantautrice argentina Juana Molina…), penso si possa dire che i Notwist, a sette anni di distanza dal precedente Close To The Glass, abbiano oggi ritrovato la loro forma migliore e più limpida, quella gradazione solenne, incredibile e unica di malinconia e pacata severità che da più di vent’anni ce li fa amare.
“It's where you find me now / Again and again”.
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