Embracing that obsolescence (Ode to joy)

Popular culture no longer applies to me

Ieri sera in treno ero seduto accanto a una ragazza con una felpa dei Nirvana, una di quelle felpe standard che si comprano da H&M. Stava mangiando caldarroste da un sacchetto di carta e ascoltava musica con gli earpods. Ho sbirciato il suo telefono, c’era una playlist di Mamhood su YouTube. Mamhood fa quel genere di canzoni che non mi dicono assolutamente nulla ma che, tutto sommato, sono contento i ragazzini o i miei figli ascoltino. È roba per loro, ha una sua dignità, e mi sembra meglio di J-Ax, Baby K o Fedez.
Per dirti quanto sono sfasato e fuori dal tempo, però, il mio cervello ha registrato il trascurabile particolare delle castagne come “sta ancora mangiando caldarroste”. E mi sono accorto che in quell’ancora lasciato lì un po' sovrappensiero non stavo credendo fosse già autunno per davvero. A causa di qualche lapsus, da qualche parte nella mia testa sul treno si era formato il pensiero “ma dove avrà trovato castagne così avanti?”. Come se questo ottobre e le caldarroste fossero la sproporzionata estensione di un ottobre passato e insolitamente prolungato, sconfinato al di sopra di un’inverno, di una primavera e di un’altra estate, ma in qualche modo del tutto plausibile.
Un po’ confuso da questo vago momento Ubik dei miei pensieri, mi sono ripreso e sono ritornato al presente, mettendomi a leggere la newsletter di Darren Hemmings “Motive Unknown”, preziosa come sempre. Proprio alla fine, tra gli ultimi link, c’era il titolo “I Introduced the Term 'Dad-Rock' to the World. I Have Regrets.”, che prevedibilmente ho trovato irresistibile e che ho aperto subito. Portava a un articolo di Rob Mitchum (firma storica di Pitchfork, Paste, SPIN e Chicago Tribune) apparso ieri su su Esquire. Mitchum tornava sopra una sua vecchia recensione di Sky Blue Sky dei Wilco, datata 2007, in cui aveva usato l’etichetta “dad-rock” con un tono abbastanza negativo, contribuendo a diffondere un modo di dire spesso piuttosto sprezzante.
Da quei giorni, dall’epoca d’oro di band come National, Bon Iver, Fleet Foxes o Arcade Fire, in cui era possibile distinguere cosa fosse Dad-Rock e cosa no, è passata molta acqua sotto i ponti, e Mitchum (che non ha inventato l’espressione “dad-rock”) oggi è padre, e vuole farci sapere di considerare con un certo rammarico quella sua presa di posizione critica. Sente di essere stato forse troppo severo, di essersi lasciato prendere la mano, e arriva anche a scrivere “I also feel guilty whenever Tweedy, once one of my favorite songwriters, talks about his distaste for the term”.
Ma la cosa che mi ha colpito di più in quel pezzo è il penultimo paragrafo, il “bridge” che porta al finale, ovviamente lieto e riappacificatore. Un paragrafo che parla di un altro tempo:
But I’m embracing that obsolescence. I’m the same age now as when Tweedy put out Sky Blue Sky, and just as 28-year-old me didn’t connect with a 40-year-old’s songs about aging, marriage, and parenthood, I’m sure Pitchfork readers today don’t want music opinions from a father-of-two who often goes to bed at nine. Dad style as fashion might be a passing, ironic trend, but dad-rock as a frame of mind, an inverse of the youth-chasing mid-life crisis, might just be good mental health. It’s exhausting to stay on the bleeding edge of what’s cool; it’s liberating to know what you like, and to find joy in it during those increasingly scarce moments of free time, or when you’re dealing with the stress of caring for the little humans you made.
E qui ci troviamo di fronte a quello che potremmo definire un “reverse Reynolds”, un gesto atletico molto più difficile e faticoso di quanto si possa immaginare. Se eseguito con accuratezza, collocherà l’autore che lo realizza in una condizione diametralmente opposta, del tutto speculare, a quella di chi invece ritiene necessario che l’analisi dei singolari fenomeni culturali che avvengono intorno alla musica debba procedere costantemente in avanti, sempre alla ricerca di nuovi segni e di una nuova attualità da decifrare. Con Mitchum, invece, siamo alla fuga di fronte a un “what’s cool” letteralmente sanguinante.
“Abbracciare l’obsolescenza” sembra essere un’arte che la Generazione X ha imparato a praticare con paziente e incantevole raffinatezza: si può dire che sia nata per quello. Non abbastanza vecchia per permettersi di ignorare o addirittura biasimare il cambiamento, e non abbastanza dinamica per riuscire a goderne fino in fondo. “Abbracciare l’obsolescenza” come si abbraccia una boa in mezzo alla burrasca (e magari non hai nemmeno provato a vedere se qui si tocca). “Abbracciare l’obsolescenza” è una cosa che, in realtà, da amante dell’indiepop, ho imparato a frequentare ben prima dell’età del Dad-Rock. Nelle scene minime e pretenziose, nell'esasperazione dell'effimero e del fragile, una posa al tempo stesso compiaciuta ma anche consapevole, sono passate e hanno prosperato inosservate le stagioni più twee. Se vuoi, c’è sempre un prima a cui rimandare, e trovi sempre qualcuno che ti spiega che “una volta era meglio”.
Come Mitchum è sicuro che “Pitchfork readers today don’t want music opinions from a father-of-two who often goes to bed at nine”, così noi da sempre siamo stati del tutto certi che ben pochi avevano voglia di perdere tempo (e men che meno di ballare) con dischi che arrivavano da etichette che potevano proclamare con sommo candore “Music Is My Girlfriend” oppure “Happy Happy Birthday To Me”. E questo, forse, ci ha difeso e protetto da quel "contrario della crisi di mezza età che rincorre la gioventù", in fin dei conti superfluo. E questo, forse, è stato un po’ il mio momento caldarroste-con-lapsus sul treno ormai arrivato a Bologna: l’indiepop è sempre stato un po’ il Dad Rock di sé stesso, sfasato in una crisi di mezza età perenne che scavalca mesi e stagioni, senza bisogno di nessun “youth-chasing”, perché nel suo essere costantemente un po’ obsoleto e fuori dal tempo continua a trovare tutta la "youthfulness" di cui ha bisogno.
Al mio ritorno a casa, nella cassetta della posta c'era ad aspettarmi il pacchetto dell'ultimo crowd-funding di Eddie Argos: con meravigliosa puntualità, la maglietta “Popular culture no longer applies to me” era finalmente mia.




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