A Daniel Johnston sono arrivato tardi, come a tante altre cose nella vita. Lungo gli Anni Novanta incrociavi abbastanza spesso il suo nome accanto a quello di gente importante: Kurt Cobain, con la famosa t-shirt regalata da Everett True, gli Yo La Tengo (protagonisti di un memorabile live al telefono), i Teenage Fanclub, i Sonic Youth, i Butthole Surfers… anche se da qui non appariva subito chiaro perché. Daniel Johnston era un’entità che richiedeva tempo e conoscenza per manifestarsi. Scoprivi che c’era sempre altro, c’era sempre un prima più nascosto. Ogni tanto qualche mensile dedicava a Johnston una retrospettiva: senza nulla da ascoltare, leggevi invariabilmente parole come "icona" o "leggenda", restavi a guardare questi suoi ritratti in bianco e nero e non capivi come potessero contenere, al tempo stesso, tanta costernazione e tanta sincerità. Gli occhi di Daniel Johnston si spalancavano ingenui su sentimenti e passioni che chiunque era abituato a sbirciare soltanto in maniera fugace, da una prudente distanza. Noi avremmo distolto subito lo sguardo, rifugiandoci in parole misurate per aggirare certi abissi penosi e certi slanci celestiali: quel ragazzo sorridente e impacciato, invece, ci si stava lanciando a capofitto.
Would you follow me anywhere
Are you entertained by deep despair?
Love, world, cry, hope, death, friends, give, feel, you, me… c’era tutto un vocabolario ricorrente che sembrava non poter essere più elementare. Eppure, appena prestavi davvero orecchio, ti strappava un singhiozzo all’istante. Mentre trattenevi le lacrime, vedevi Daniel Johnston usare quelle parole come mattoncini Duplo grossi e dai colori fin troppo sgargianti, ma con quelli era capace di costruire intere poesie.
A poco a poco, scoprivi che tutte le band che amavi avevano in repertorio una cover di Daniel Johnston (la prima che ricordo: Speeding Motorcycle dei Pastels, per non cominciare a citare tutti quelli che hanno rifatto True Love Will Find You In The End). Poi arrivò il peer-to-peer e nella foga di recuperare tutto ti ritrovavi con questi mp3 di una inconcepibile bassa fedeltà, e lì per lì non eri sicuro che fossero “le canzoni vere”. Suonava davvero a quella maniera, quel famoso Daniel Johnston?
Poi arrivò Fear Yourself, l’album del 2003 prodotto da Mark Linkous, l’uscita di Johnston più accessibile fino a quel momento. Nonostante alcune recensioni non apprezzassero la direzione data al disco dal cantante degli Sparklehorse, giudicato troppo invadente e colpevole di avere ammorbidito in maniera eccesiva la ruvida materia musicale di Johnston, io come tanti altri rimasi incantato (ma un incantato che deborda quasi nel trafitto) da quelle canzoni, da quel senso di intensa tragedia e altrettanto intensa gioia.
She's got me singing with a broken heart
I keep on messing with my mind torn apart
She's only forgotten we've been left in the dust
I guess my art didn't help very much
La questione della “mind torn part” era sempre presente (non è mai stato possibile parlare di Daniel Johnston senza parlare anche di depressione, schizofrenia, farmaci e malattia), e credo sia stata il vero motivo per cui decisi di non andare a vederlo dal vivo, quando venne in concerto a Bologna nel 2005 (un evento gratuito, all’aperto, prevedibilmente gremito all’inverosimile). Mi hanno raccontato dell’agonia di quell’uomo a tratti confuso sul palco, e per quanto il desiderio di poter dire “io c’ero” sia sempre forte in queste occasioni, oggi non ho particolari rimpianti.
Anche se non ho motivo per dubitare che lui volesse sinceramente essere lì a cantarci le sue canzoni, ho l’impressione che io invece avrei provato in anticipo, e proprio davanti a lui, quello che ho provato ieri notte alla notizia della sua morte. Quel senso irreparabile di smarrimento e amarezza, come se ti avessero portato via qualcosa di caro, però con quella punta di recondita consapevolezza (una pietosa consapevolezza) che quell’amore non fosse la cosa che alla fine gli avrebbe dato davvero la guarigione.
Nel mezzo, nell’incerto equilibrio, al di là di ogni ferita, di ogni melodia urlata e sgraziata, al di là di ogni pianto sui tasti del pianoforte, resta questa musica strappata ai nastri registrati nei garage, questa musica che suonava tutta di colpo, tutta in un momento, per un momento, sguaiata e fragile come la vita che cantava e canterà per sempre Daniel Johnston.
Goodbye semi-cruel world
You had it coming for so long
I’m leaving, but I’ll be coming back
I’m just a singer in a semi-famous song
Love, love, love
Love, love, love
Living it for the moment
Are you gonna smile or fall on your face?
(mp3) Daniel Johnston - Living It For The Moment
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