"I thought it'd be funny to write an anthemic sounding rock song about wanting to be unknown. I wrote it a few years ago, it was going to be on the last record, but it didn't sound right. There weren't enough guitars or crash cymbals. If you wanna be forgotten, a lot of guitars and crash cymbals are a great way to communicate this. Its also about heartache."
Siamo quelli che saranno dimenticati, la Storia ci avrà trascurato, ma almeno ce ne saremo andati in mezzo al frastuono dei riverberi e al fischio dei feedback, con tutte le chitarre in gloria, anche quelle scordate. Passano le estati degli altri, i sonni agitati e la vita che ci abbruttisce. Ci teniamo qualche inno sporco, quelle due tre parole che ci ripetiamo da sempre, una cicatrice. Tutti i più grandiosi dischi di indie rock dovrebbero sembrare così: "non finiti", eppure suonare esattamente come se nulla dovesse essere più toccato. Un'espressione indefinita ma completa che mi lascia addosso quel desiderio infantile e irrefrenabile di imbracciare una chitarra, di baciare, di ballare e di correre via di qua. Secondo album per The Stevens e vale ancora quello che avevo detto per l'esordio del 2013: "l'eleganza schiva di un gesto compiuto ma non chiuso". Cambiano in parte i fattori della somma: dentro questo nuovo Good la scrittura assume (quasi sempre) contorni più definiti, il minutaggio si fa più consistente, e quasi tutti i ritornelli girano un paio di volte. Ma queste notazioni passano in secondo piano, quando queste diciotto canzoni lungo quaranta minuti scarsi ti sbattono addosso un'infinità di pure intuizioni fatte di Television, Guided By Voices, Clean, Pavement, Modest Mouse. Quasi tutte strepitose, quasi nessuna conclusa. E non mi aspetto niente di meno da una band composta da membri di Twerps, Boomgates e Dick Diver: la meglio Australia che amo. Prendiamo a calci i ricordi, I want my life to be like the opening sequence of a sit-com.
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