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His Clancyness - Isolation Culture

«Da cosa è stata caratterizzata tutta questa mia produzione, in maniera assolutamente schematica e semplicistica? È stata caratterizzata, prima di tutto, da un mio istintivo e profondo odio contro lo stato in cui vivo. Dico proprio "stato": e intendo dire "stato di cose" e "Stato", nel senso proprio politico della parola. Lo Stato capitalistico piccolo-borghese che io ho cominciato a odiare fin dall'infanzia. Naturalmente, con l'odio non si fa nulla...»

Pier Paolo Pasolini


Giorni interi senza notifiche. Non aggiorni, non rispondi, non so cosa pensare, manca l'aria. Giorni interi senza messaggi: per quanto tempo riuscite a tenere a bada, voi, questo assillante disagio? Non hai pazienza, non ascolti ma non tolleri i silenzi. Che valore politico dai alla tua distrazione? Perché non ci vediamo?
Non c'è quasi canzone, dentro il nuovo album degli His Clancyness, che non muova da qualche malessere: "I know I have not felt right in your hands", il verso con cui si apre la prima traccia, Uranium; "Sometimes I feel like a failure", quello con cui comincia il singolo Pale Fear; "So disappointed with myself / I regret my current mood" (la conclusiva Only One). In mezzo scorrono ritornelli come "All is a lie" (Nausea) e "Please now tell me that I'm ending" (Calm Reaction).
Eppure, nemmeno per un secondo viene in mente che Isolation Culture sia un disco introverso, ripiegato su sé stesso, o che la scrittura non faccia di continuo riferimento a un livello più generale, vorrei dire collettivo, calcando di proposito sulla sfumatura più obsoleta di questa parola.
C'è sempre qualche reazione che viene fatta detonare all'interno delle stesse strofe: è la necessità della dialettica che nutre e spinge questa musica. La puoi sentire nell'orgoglio che vibra in quel "my hook is on the street" nella title track, a cui fa eco la famelica sfida alla città dentro Pale Fear, pronunciata mettendo bene in vista i canini scintillanti. La percepisci dentro la rumorosa rabbia tenuta a distanza nel folgorante frammento di jam Cuuulture (la ascolteremo mai per intero dal vivo?). La puoi avvertire, soprattutto, nel campionamento di Pasolini che si innesta, del tutto imprevedibile e spiazzante, all'inizio di Dreams Building Dreams, forse una delle composizioni più emozionanti dell'intera discografia della band, e che rovescia dentro questo disco un elemento politico che non si può scansare soltanto per citare quei tre o quattro riferimenti da recensione standard.
Isolation Culture è la ricerca di una via d'uscita all'ossimoro contenuto nel suo titolo. Per chi, con ottimismo umanista, vuole ancora associare un'idea di progresso al significato di cultura, l'isolamento nel quale navighiamo, il distacco indotto da questo presente che crediamo accelerato (quello che Douglas Coupland chiama "time shrink"), non è soltanto un muro da abbattere. È "lo stato delle cose" (mutato rispetto a quello pasoliniano, ma non meno pervasivo) che può servirti per scatenare l'incendio. Sei tu che devi aprire gli occhi ("forced to realize the inneficiency of class"), sei tu che devi decidere come sfruttare la tua isolation culture. La canzone che dà il titolo all'album si apre con l'entrata in scena di un "double faced waiter" e sul piatto ti serve la propria testa. Tieni a mente che "rage is not a virtue", ma non di meno "fuck you Italian government", e per come arriva, quel verso crudo è una liberazione clamorosa. Sì, qui dentro ci sono i "sogni che costruiscono sogni", stanno ancora "cercando di capire come cambiare", ma sta a te decidere di non nasconderti.



[Post scriptum: certo, questo disco poi è fatto anche di altro, in primo luogo di una grana di suono che ormai gli His Clancyness hanno fatto diventare un marchio di fabbrica, un suono in qualche modo "sporco" e caldo, reso però con nitidezza e accuratezza estreme, tutto il contrario di bassa fedeltà, direi. Un suono in cui convivono synth analogici e propulsioni kraut con irruenza rock'n'roll e disarmanti dolcezze da cantautore. Come è noto, oltre che nel bolognese Strange City Studio, messo in piedi da Jonathan Clancy stesso insieme al bassista Nico Pasquini, le registrazioni sono passate anche per gli Invada Studio di Bristol, dove la band ha collaborato con Stu Matthews (Portishead, Beak, Anika), e per il Suburban Home di Leeds, insieme a Matthew Johnson degli Hookworms. Tutto questo ha fatto di Isolation Culture un disco in cui le atmosfere perlopiù notturne hanno poco o nulla di sognante o etereo. Anzi, è come quel momento della notte, circa dopo le tre, in cui ti ritrovi all'improvviso lucido e calmo, e ogni cosa, ogni ombra e ogni riflesso, ti appare nuova e in alta definizione. Tutti i riferimenti consueti sono ancora qui: Deerhunter (ascoltate l'esplosiva Xerox Mode a volume illegale), David Bowie, Swell Maps, Kurt Vile, Fresh & Onlys, qualcosa anche di Destroyer... Si tratta di un linguaggio che gli His Clancyness maneggiano con sempre maggiore abilità.  Ma è anche innegabile che Isolation Culture è un disco superiore alla somma delle sue parti, dentro cui passa una testimonianza di questo tempo e di questo luogo, quello che resta della nostra cultura e quello che vogliamo che diventi.]

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