[continua] Non mi sono dimenticato del saggio di Marc Spitz: è solo che i capitoli successivi, quelli dedicati a cercare le premesse e le radici del “movimento” Twee, dagli Anni Trenta agli Anni Ottanta, sono stati un po’ sconcertanti e, in fondo, anche meno interessanti. Se posso capire quali sono le motivazioni del citare Walt Disney e Il giovane Holden, mi sembra sia stato reso con minore evidenza perché creare implicite e complicate connessioni con la figura di Anna Frank, l’icona di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany, Pinocchio, la Nouvelle Vague, la poetessa Silvya Plath e altri. Come se cultura fosse soltanto una grande dashboard di Tumblr, con i suoi santini da collezionare e impaginare per bene. Questa è la parte del libro che mi ha convinto di meno. Forse non c’era altro modo per “risalire alle origini” del Twee, ma se il risultato è questo mi domando quanto fosse necessario farlo.
Se un gusto si afferma e si diffonde, mi pare ovvio immaginare che il percorso delle idee sia stato lungo, a volte non visibile, e abbia impiegato decenni per affacciarsi tra varie forme di espressione. Forse tentare di portare alla luce in maniera così netta indizi e legami lontani riesce soltanto a mostrare come questi nodi siano fragili, inafferrabili slittamenti nel gusto e nell’opinione pubblica, che vanno in qualche modo lasciati su scala ridotta, senza sfruttarli come leve per pensieri di lunga gittata.
Discorso diverso invece quando Spitz torna sul terreno musicale, e infatti si avverte una specie di cesura tra le pagine in cui parla di libri, TV e cinema, e le pagine dedicate per esempio a Kinks, Beach Boys e Jonathan Richman. La nascita del personaggio “Jonathan Richman”, parallela alla parabola del punk e dei Settanta, nell’interpretazione di Spitz, si rivela un punto di contatto singolarissimo tra il Rock americano e la cultura inglese. Il modo in cui il cantautore newyorkese ha tramandato una parte della lezione dei Velvet Underground diventa decisivo anche per il successivo e pur già lontano post-punk.
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