"A sassy, dreamy, glam rock'n'roll album": così sulla fanzine allegata alla versione in vinile di Vicious Jonathan Clancy descrive il debutto sulla lunga distanza firmato His Clancyness. E forse la chiave del fascino di questo disco sta proprio nel connettersi e ricomporsi di continuo di questi elementi distintivi: l'energia selvaggia accanto alle atmosfere più sognanti, il luccicante glam e il tenebroso mistero rock'n'roll.
Vicious è uno di quei dischi di cui puoi avere una nuova canzone preferita ogni settimana. Per me è stato così. Il primo colpo di fulmine fu per Gold Diggers, forse il pezzo più immediato di tutta la scaletta, un folk rock che sembra doversi spalancare da un momento all'altro e invece resta coi piedi per terra, ti guarda negli occhi e si ferma prima di farne un dramma: "there is nothing else you can do". Poi ho avuto il periodo Miss Out These Days: un tempo medio, autunnale, ritmica morbida, chitarra acustica contro tappeto sintetico e melodia che sale e ti avvolge. Quando è uscito il video di Machines non smettevo di ascoltarla. Il suo insistere, svilupparsi nella ripetizione, costruire e aggiungere dando però l'impressione di restare conficcata sempre sullo stesso attimo, l'esaltazione ipnotica delle chitarre e quello strappo improvviso sui versi "Oh I stand like a dog / Until I’m buried by absence". A un certo punto avevo in loop soltanto Run Wild, scarna e senza tempo, velvetiana. Dopo è stata la volta dei nervi scoperti di Zenith Diamonds, una canzone superba che parte a razzo, sembra volersi mangiare il tempo e continua a rimbombare di un'urgenza fragorosa. C'è vigore e c'è luce quando Clancy ripete "You are pure, you are pure, you are pure". Ma il mio testo preferito rimane quello di Crystal Clear, forse il più "semplice" del disco ma anche il più apertamente passionale: "When I have no light be my torch", e quelle mani capaci di fare domande. E a proposito di testi, le poche parole di Avenue potrebbero passare inosservate, eppure la delicatezza che racchiude tra le righe ("written the day after an earthquake hit our Bologna area last year and we had to run outside") fanno di questa ballata acustica - unica canzone del disco a essere stata registrata "a casa" - una piccola cosa molto preziosa, commovente, forse la più simile alle tracce che His Clancyness suonava quando ancora non era una band al completo.
L'altra cosa che mi ha colpito, tra quelle raccontate da Clancy a proposito di Vicious, è che per l'album sono stati utilizzati 17 synth. E il numero sembra ancora più notevole per un album che appartiene inconfutabilmente al mondo indie rock, che suona innegabilmente rock. Non è tanto la questione del "si può fare rock con l'elettronica", qui il concetto è diverso. Sta nel gioco dei contrasti, qualcosa di più che semplici chiaroscuri. Nel modo in cui proprio dove ti aspetteresti una presa di posizione diretta, vistosa, il suono invece ti spiazza, accenna, sfugge, crea una grande immagine ma senza darti tutti gli elementi. Questo è un altro tipo di audacia, o di seduzione se vuoi. Ascolti Vicious e ti ritrovi dentro una mappa in qualche modo familiare ma che al tempo sesso chiede anche di essere scoperta. Credo che buona parte del merito stia, da una parte, nella produzione di Chris Koltay (già al lavoro con Atlas Sound, Lotus Plaza, Akron Family - giusto per citare un po' di nomi che aiutano a orientarsi qui), e dall'altra alla cultura musicale onnivora di Clancy che presentando il disco non fa mistero delle proprie influenze: "I adore Swell Maps, Can, Bowie, Modern Lovers, Lee Hazlewood, Scott Walker, Gun Club, Women, Sonic Youth, Stevie Nicks, Gastr Del Sol, Zombies and just about every psychedelic pop nugget produced". Uno potrebbe fare già una recensione con queste tre righe, mancano solo i decimali di Pitchfork e le medie di Metacritic, e molti sarebbero già contenti così. Ma non è quello che importa, non è quella la strada, e continuerebbero a fraintendere la traduzione del titolo.
(mp3) His Clancyness - Zenith Diamond
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