Una domenica post moderna
Se non ci fossero stati Enzo alla guida della leggendaria blogmobile e l'indigeno Lucio seduto alla sua destra a scandire con abilità indicazioni logistiche appropriate, all'Ekidna ieri sera non ci saremmo mai arrivati, Fabrizio ed io.
Soprattutto dopo aver speso energie fisiche e mentali in un intero pomeriggio impiegato a vagare più o meno sensatamente tra una mostra sulla Pop Art inglese e le strade di Modena, culminando l'escursione in un aperitivo molto poseur consumato tra le mura del trend bar Juta, e soprattutto nello scavallamento sotterraneo della stazione ferroviaria locale, districandosi tra i ricordi di un concerto di Fugazi assistito al Condor dirimpetto, l'8 di giugno del '92.
Migliarina di Carpi non so dove diavolo sia. Non lo sapevo prima di ieri, non ne ho idea nemmeno oggi, dopo esserci stato.
L'Ekidna è una scuola, nemmeno troppo vecchia, parzialmente riadattata a laboratorio culturale, teatro e musica, la sede di una associazione eco culturale, come si definiscono.
Insomma il solito fantastico posto, inteso proprio nel senso di prodotto della fantasia senza necessari rispondenza nella realtà dei fatti, dove quel piccolo miracolo chiamato Fooltribe organizza certe serate che sembrano inventate apposta per scoraggiare ed allontanare chiunque non sia realmente e seriamente interessato alla musica, alla loro musica quanto meno, che ovviamente è anche la nostra.
L'Ekidna è lì, in mezzo al buio, tra il nulla e la campagna. Attorno nessun segnale che possa indicarne la presenza, ma proprio nessuno, nemmeno una freccia di cartone vergata a pennarello. Solo il solito piccolo crocchio di automobili, giurerei essere sempre le stesse, come le persone che affollano discretamente le due stanze al piano di sopra, facce che sembra di conoscere da sempre.
Delle due stanze una è allestita a sala bar, dagli altoparlanti esce la musica che sta dentro a Rio, secondo album di Duran Duran, scelta al guado tra snobismo e incoscienza.
L'altra stanza, quella più piccola, è destinata ai concerti: niente palco, un telo nero e quattro fari sono la scenografia. Alle pareti un poster di un concerto americano di White Stripes e la locandina del primo Kill Bill.
La serata è inaugurata da un breve set di tale Dinasty Handbag, ragazza tosta ed un pizzico squilibrata. Il suo abbigliamento è curato probabilmente dallo stesso stilista che si occupa dell'immagine di Peaches, turchese catarifrangente su mini short e ciabatta infradito. Accende un i-pod da cui partono schegge di elettro dance minimale ed autoironiche frasi in italiano, sopra lei urla a tempo.
Esserci è meno peggio che raccontarlo. L'ultima canzone in particolare è una autobiografia assai divertente, una di quelle canzoni che da sole potrebbero giustificare l'esistenza stessa del personaggio.
I Numbers sono in tre, vengono da San Francisco ed attaccano con una versione da manicomio del loro manifesto programmatico, We're Numbers. Poi si distendono su ritmi punk funk, sclerotici ma pur sempre ritmi. Cantano in tre, a sinistra un tipo che pigia i tasti di un moog, al centro la batterista, una bruna lunga e magra, molto giovane, faccia simpatica ed una certa singolare somiglianza con quella ex commessa di quel negozio di libri e cd al centro di Bologna, o per semplificare con la Catpower Chan Marshall. A destra c'è il chitarrista.
Il ruolo decisivo è quello assegnato al moog. Se oggi avessi una band vorrei assolutamente smanettare un moog, che oltre a suonare così anni 80 sembra essere ad occhio anche lo strumento più semplice da manipolare, e visto che non ho la benché minima idea di come si suoni qualunque strumento musicale, il particolare della semplicità mi pare tuttaltro che trascurabile.
Concerto divertente ed adrenalinico il giusto, 20 canzoni infilate in 45 minuti, secondo più secondo meno.
Ci si vede tutti sabato a Musica nelle Valli, alle 3 del pomeriggio.
Se non ci fossero stati Enzo alla guida della leggendaria blogmobile e l'indigeno Lucio seduto alla sua destra a scandire con abilità indicazioni logistiche appropriate, all'Ekidna ieri sera non ci saremmo mai arrivati, Fabrizio ed io.
Soprattutto dopo aver speso energie fisiche e mentali in un intero pomeriggio impiegato a vagare più o meno sensatamente tra una mostra sulla Pop Art inglese e le strade di Modena, culminando l'escursione in un aperitivo molto poseur consumato tra le mura del trend bar Juta, e soprattutto nello scavallamento sotterraneo della stazione ferroviaria locale, districandosi tra i ricordi di un concerto di Fugazi assistito al Condor dirimpetto, l'8 di giugno del '92.
Migliarina di Carpi non so dove diavolo sia. Non lo sapevo prima di ieri, non ne ho idea nemmeno oggi, dopo esserci stato.
L'Ekidna è una scuola, nemmeno troppo vecchia, parzialmente riadattata a laboratorio culturale, teatro e musica, la sede di una associazione eco culturale, come si definiscono.
Insomma il solito fantastico posto, inteso proprio nel senso di prodotto della fantasia senza necessari rispondenza nella realtà dei fatti, dove quel piccolo miracolo chiamato Fooltribe organizza certe serate che sembrano inventate apposta per scoraggiare ed allontanare chiunque non sia realmente e seriamente interessato alla musica, alla loro musica quanto meno, che ovviamente è anche la nostra.
L'Ekidna è lì, in mezzo al buio, tra il nulla e la campagna. Attorno nessun segnale che possa indicarne la presenza, ma proprio nessuno, nemmeno una freccia di cartone vergata a pennarello. Solo il solito piccolo crocchio di automobili, giurerei essere sempre le stesse, come le persone che affollano discretamente le due stanze al piano di sopra, facce che sembra di conoscere da sempre.
Delle due stanze una è allestita a sala bar, dagli altoparlanti esce la musica che sta dentro a Rio, secondo album di Duran Duran, scelta al guado tra snobismo e incoscienza.
L'altra stanza, quella più piccola, è destinata ai concerti: niente palco, un telo nero e quattro fari sono la scenografia. Alle pareti un poster di un concerto americano di White Stripes e la locandina del primo Kill Bill.
La serata è inaugurata da un breve set di tale Dinasty Handbag, ragazza tosta ed un pizzico squilibrata. Il suo abbigliamento è curato probabilmente dallo stesso stilista che si occupa dell'immagine di Peaches, turchese catarifrangente su mini short e ciabatta infradito. Accende un i-pod da cui partono schegge di elettro dance minimale ed autoironiche frasi in italiano, sopra lei urla a tempo.
Esserci è meno peggio che raccontarlo. L'ultima canzone in particolare è una autobiografia assai divertente, una di quelle canzoni che da sole potrebbero giustificare l'esistenza stessa del personaggio.
I Numbers sono in tre, vengono da San Francisco ed attaccano con una versione da manicomio del loro manifesto programmatico, We're Numbers. Poi si distendono su ritmi punk funk, sclerotici ma pur sempre ritmi. Cantano in tre, a sinistra un tipo che pigia i tasti di un moog, al centro la batterista, una bruna lunga e magra, molto giovane, faccia simpatica ed una certa singolare somiglianza con quella ex commessa di quel negozio di libri e cd al centro di Bologna, o per semplificare con la Catpower Chan Marshall. A destra c'è il chitarrista.
Il ruolo decisivo è quello assegnato al moog. Se oggi avessi una band vorrei assolutamente smanettare un moog, che oltre a suonare così anni 80 sembra essere ad occhio anche lo strumento più semplice da manipolare, e visto che non ho la benché minima idea di come si suoni qualunque strumento musicale, il particolare della semplicità mi pare tuttaltro che trascurabile.
Concerto divertente ed adrenalinico il giusto, 20 canzoni infilate in 45 minuti, secondo più secondo meno.
Ci si vede tutti sabato a Musica nelle Valli, alle 3 del pomeriggio.
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