Thank you for the music (12)
Una polaroid di musica in nice price
L'ultimo refresh durante la puntata di giovedì scorso ci informava che le offerte per acquistare all'asta la defunta Grand Royal avevano raggiunto i 32.500 dollari. Pare che alla fine siano raddoppiate, ma resta l'impressione che nessuno abbia voluto accollarsi questo "bunch of junk".
Triste, e per certi versi incomprensibile, fine per un'etichetta che neanche dieci anni fa sembrava depositaria di tutto quanto era cool.
Per rendere omaggio al gruppo che più di tutti ha legato il suo nome alla Grand Royal, i Beastie Boys, abbiamo scelto come dodicesimo disco in nice price da avere assolutamente Check your head, album del 1992 che consacrò in maniera definitiva il terzetto newyorkese.
La cosa singolare è che i Beastie Boys, attivi già dall'inizio del decennio precedente, il lancio commerciale in grande stile l'avevano già avuto. Licensed to ill (disco che li faceva passare più o meno per dei Beavis and Butthead) è del 1986 e fu il disco rap più venduto degli anni Ottanta, ma arrivava alcuni anni dopo il periodo dentro la scena punk hardcore della Grande Mela (vedi Some Old Bullshit).
Fu grazie all'incontro con Rick Rubin e la sua appena fondata Def Jam che i Beastie Boys si imposero (abilmente) all'attenzione del grande pubblico: troppo volgari per piacere ai critici, troppo disimpegnati (e bianchi) per non dare fastidio agli integralisti dell'hip hop e per aspirare a qualunque straccio di credibilità.
In sintesi, un successo di pubblico senza pari, che li portò in tour con Madonna e i Run D.M.C.
Il problema deve essere che non puoi continuare a svuotare lattine di birra e sfasciare casa alle feste per sempre. I Beasties si stancarono della loro immagine di cazzoni e se ne andarono (con difficolt?) dalla Def Jam nel 1988, arrivando anche ad abbandonare New York.
La California sembrava un buon posto per una svolta e fu lì che incontrarono i Dust Brothers.
Paul's Boutique è l'opera che scaturì da quell'epoca travagliata: un cumulo di reperti archeologici in forma di musica così eccessivo da far venire le vertigini. Divertente ma non sguaiato, ironico ma non troppo sboccato: in una parola, intelligente. Abbastanza anomalo per rinunciare a ogni forma di affermazione commerciale, e abbastanza geniale per assicurarsi quello status "di culto" che garantiva ai Beastie Boys (di nuovo) crediti sufficienti.
Così, quando Check your head fece la sua comparsa, ormai nel nuovo decennio, furono le college radio e il pubblico "indie" (per natura, d'orecchio attento e snob) a decretarne il meritato successo.
Mike D, MCA e King Adrock erano tornati a New York e qui si erano costruiti il loro studio: la foto che fa bella mostra nel libretto del cd (ancora più lussuosa la confezione in vinile) ci fece sognare per settimane. Nelle interviste raccontavano di passarci dentro tutto il tempo per suonare, dormirci, mangiarci e portarci le ragazze. In pratica, il nostro sogno di sbarbi, all'alba della nostra collezione di dischi.
Quello che Check your head fece alle nostre orecchie adolescenti non è calcolabile: era il "momento" del crossover, della mescolanza tra i generi, d'accordo, ma a differenza di altre band del periodo i Beasties ti passavano tutto con naturalezza. Con loro non era questione di forza, ma di stile.
Era un suono che ti faceva camminare in modo diverso quando ce l'avevi in testa. Era l'ingenua pelle d'oca che ti dava ogni volta l'attacco di Jimmy James, che insistevi ad ascoltare a colazione, convinto che poi la giornata sarebbe stata migliore. Era il modo in cui avevano ricominciato a suonare gli strumenti, mostrando che ne sapevano abbastanza per cacciare fuori tutta la ruvidissima Gratitude. Era il modo in cui sapevano trasformare un disco divertente in un disco politicamente consapevole. Era la fiducia che dava quell'intrecciarsi delle tre voci, ormai doveva essere automatico per loro. Erano i beat, i grezzi pum-pum-ciak che avevi sempre avuto dentro e che i Beastie Boys, finalmente, rendevano musica.
Una polaroid di musica in nice price
L'ultimo refresh durante la puntata di giovedì scorso ci informava che le offerte per acquistare all'asta la defunta Grand Royal avevano raggiunto i 32.500 dollari. Pare che alla fine siano raddoppiate, ma resta l'impressione che nessuno abbia voluto accollarsi questo "bunch of junk".
Triste, e per certi versi incomprensibile, fine per un'etichetta che neanche dieci anni fa sembrava depositaria di tutto quanto era cool.
Per rendere omaggio al gruppo che più di tutti ha legato il suo nome alla Grand Royal, i Beastie Boys, abbiamo scelto come dodicesimo disco in nice price da avere assolutamente Check your head, album del 1992 che consacrò in maniera definitiva il terzetto newyorkese.
La cosa singolare è che i Beastie Boys, attivi già dall'inizio del decennio precedente, il lancio commerciale in grande stile l'avevano già avuto. Licensed to ill (disco che li faceva passare più o meno per dei Beavis and Butthead) è del 1986 e fu il disco rap più venduto degli anni Ottanta, ma arrivava alcuni anni dopo il periodo dentro la scena punk hardcore della Grande Mela (vedi Some Old Bullshit).
Fu grazie all'incontro con Rick Rubin e la sua appena fondata Def Jam che i Beastie Boys si imposero (abilmente) all'attenzione del grande pubblico: troppo volgari per piacere ai critici, troppo disimpegnati (e bianchi) per non dare fastidio agli integralisti dell'hip hop e per aspirare a qualunque straccio di credibilità.
In sintesi, un successo di pubblico senza pari, che li portò in tour con Madonna e i Run D.M.C.
Il problema deve essere che non puoi continuare a svuotare lattine di birra e sfasciare casa alle feste per sempre. I Beasties si stancarono della loro immagine di cazzoni e se ne andarono (con difficolt?) dalla Def Jam nel 1988, arrivando anche ad abbandonare New York.
La California sembrava un buon posto per una svolta e fu lì che incontrarono i Dust Brothers.
Paul's Boutique è l'opera che scaturì da quell'epoca travagliata: un cumulo di reperti archeologici in forma di musica così eccessivo da far venire le vertigini. Divertente ma non sguaiato, ironico ma non troppo sboccato: in una parola, intelligente. Abbastanza anomalo per rinunciare a ogni forma di affermazione commerciale, e abbastanza geniale per assicurarsi quello status "di culto" che garantiva ai Beastie Boys (di nuovo) crediti sufficienti.
Così, quando Check your head fece la sua comparsa, ormai nel nuovo decennio, furono le college radio e il pubblico "indie" (per natura, d'orecchio attento e snob) a decretarne il meritato successo.
Mike D, MCA e King Adrock erano tornati a New York e qui si erano costruiti il loro studio: la foto che fa bella mostra nel libretto del cd (ancora più lussuosa la confezione in vinile) ci fece sognare per settimane. Nelle interviste raccontavano di passarci dentro tutto il tempo per suonare, dormirci, mangiarci e portarci le ragazze. In pratica, il nostro sogno di sbarbi, all'alba della nostra collezione di dischi.
Quello che Check your head fece alle nostre orecchie adolescenti non è calcolabile: era il "momento" del crossover, della mescolanza tra i generi, d'accordo, ma a differenza di altre band del periodo i Beasties ti passavano tutto con naturalezza. Con loro non era questione di forza, ma di stile.
Era un suono che ti faceva camminare in modo diverso quando ce l'avevi in testa. Era l'ingenua pelle d'oca che ti dava ogni volta l'attacco di Jimmy James, che insistevi ad ascoltare a colazione, convinto che poi la giornata sarebbe stata migliore. Era il modo in cui avevano ricominciato a suonare gli strumenti, mostrando che ne sapevano abbastanza per cacciare fuori tutta la ruvidissima Gratitude. Era il modo in cui sapevano trasformare un disco divertente in un disco politicamente consapevole. Era la fiducia che dava quell'intrecciarsi delle tre voci, ormai doveva essere automatico per loro. Erano i beat, i grezzi pum-pum-ciak che avevi sempre avuto dentro e che i Beastie Boys, finalmente, rendevano musica.
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