Musica per falò di vanità
Eccoci, dunque. Il momento più atteso da "vittime del glamour, finti pensatori e patetici blogger" finalmente è giunto. Polaroid, sino ad ora nel novero delle "uniche sette persone in Italia" a non aver ancora detto la sua a proposito del nuovo disco degli Strokes, esce allo scoperto.
Sono chiuso in una stanza con una copia di Room On Fire gentilmente reperita per conto del sottoscritto da Arturo all'ipermercato. Unici testimoni: un poster di Azémard alla parete, una foto di Grace Kelly in bianco e nero e una lattina di birra autografata (chissà perché) da me stesso un attimo prima di accendere il computer.
L'ennesimo ascolto in repeat senza fermarsi, non si può sbagliare, ricordando ogni volta la faccia sconcertata di L. quando la secca intro di What ever happened? si era sprigionata dallo stereo a volume inammissibile per le otto di mattina e l'aveva svegliata con un tremendo colpo alla nuca.
Poi io ero andato a preparare la colazione, il tempo di spalancare le tende e il disco aveva già concluso un giro. Dopo l'ultima nota del gran finale I can't win anche Andrea si era affacciato da camera sua, La Laura ferma sulla porta del bagno, io in piedi con la teiera, ci siamo guardati sorridendo e abbiamo detto: ma è bello!
Buona giornata Mr. Rock'n'Roll, fa bel tempo, splendono le chitarre, scendo a prendere i giornali. Oh, che piacere! Guarda qui: se c'è una cosa per cui gli Strokes meritano di passare alla storia è il modo in cui da tre anni a questa parte hanno spinto i giornalisti musicali in tutto il mondo a scrivere in maniera sempre più eccitante, e non mi riferisco solo al Village Voice o a Pitchfork. Si avverte il bisogno di competere con una musica che è sexy dalla prima all'ultima nota, scazzata e sexy a un livello tale che per parlarne dovresti infilarti un giubbotto di pelle.
E non m'importa se il decrepito snob che è in voi si è già annoiato: "ah, dunque per quelli di polaroid questa roba è figa. Lo sapevamo già: sono sempre così... tristemente 2001".
Non m'importa, la birra è finita e io sono stanco. Sono stanco delle ragazzine che si sentono più importanti se non rispondono alle mail, stanco dei ragazzini che ti giudicano dalle scarpe e per i quali sei un irrimediabile sfigato perché a quasi trent'anni non ti sei mai comprato una Ben Sherman, stanco di quelli ormai incapaci di parlare senza sarcasmo, di quelli che hanno paura di sudare e non ballano mai una volta. Stanco di quelli che ti interrogano con un sorrisetto per sapere la tua sul disco degli Strokes.
Queste 11 canzoni stipate in mezz'ora mi fanno sentire come se avessi addosso quel giubbotto di pelle, invulnerabile a tutto questo, e mi fanno guardare la città sotto la finestra e anche Piazza Santo Stefano sembra Manhattan, e sono immobile ma è come se saltassi per tutta la stanza. Non è musica da festa, ma è la musica che senti quando tu fai festa, quando ti lasci andare, quando ti fai prendere.
Room on fire è più melodico ma meno potente del suo predecessore. Non ci sono pezzi da sfracello (si sente più la mancanza di una New York City cops che di Last nite) ma l'album ci guadagna in compattezza. Non è il disco dell'anno, e non è un disco di cui ricordi subito tutti i titoli, come successe con Is this it. Ma è un disco che ha qualcosa di "vero" e in cui si muove con forza una un'energia che non saprei definire altro che sincera (ormai definitivamente "alla Strokes"), nonostante questi ragazzi di sincero pare non abbiano proprio più nulla.
Chi se ne frega: con l'indie abbiamo dato e diamo e non smettiamo. Questi fanno rock, entertainment: divertitevi se ci riuscite ancora, se non avete paura di fare brutta figura o di sporcare la maglietta.
A chi sorriderà alla prima strofa di What ever happened?, a chi suderà Reptilia (cugino minore delle vecchie Soma o Barely legal), a chi si sentirà sollevato dall'insolito tempo in levare di Automatic Stop, a chi non si toglierà dalla testa 12:51, a chi ancora alzerà le braccia sull'epico chorus di You talk way too much (attaccato al resto della canzone con lo sputo di un riff minimo che più Television non si potrebbe), a chi si muoverà dinoccolato sul passo seducente di Between love and hate, a chi morirà dalla voglia di avere una maglietta con scritto Meet me in the bathroom, a chi fischietterà Smokey Robinson ascoltando Under Control, a chi sarà frastornato dai due minuti di The way it is, a chi farà sì sì con la testa su The end has no end, e a tutti quelli che riempiranno la pista del Covo se mai qualcuno suonerà ancora I can't win, per quel che vale, farò dono di una lattina di birra autografata.
Eccoci, dunque. Il momento più atteso da "vittime del glamour, finti pensatori e patetici blogger" finalmente è giunto. Polaroid, sino ad ora nel novero delle "uniche sette persone in Italia" a non aver ancora detto la sua a proposito del nuovo disco degli Strokes, esce allo scoperto.
Sono chiuso in una stanza con una copia di Room On Fire gentilmente reperita per conto del sottoscritto da Arturo all'ipermercato. Unici testimoni: un poster di Azémard alla parete, una foto di Grace Kelly in bianco e nero e una lattina di birra autografata (chissà perché) da me stesso un attimo prima di accendere il computer.
L'ennesimo ascolto in repeat senza fermarsi, non si può sbagliare, ricordando ogni volta la faccia sconcertata di L. quando la secca intro di What ever happened? si era sprigionata dallo stereo a volume inammissibile per le otto di mattina e l'aveva svegliata con un tremendo colpo alla nuca.
Poi io ero andato a preparare la colazione, il tempo di spalancare le tende e il disco aveva già concluso un giro. Dopo l'ultima nota del gran finale I can't win anche Andrea si era affacciato da camera sua, La Laura ferma sulla porta del bagno, io in piedi con la teiera, ci siamo guardati sorridendo e abbiamo detto: ma è bello!
Buona giornata Mr. Rock'n'Roll, fa bel tempo, splendono le chitarre, scendo a prendere i giornali. Oh, che piacere! Guarda qui: se c'è una cosa per cui gli Strokes meritano di passare alla storia è il modo in cui da tre anni a questa parte hanno spinto i giornalisti musicali in tutto il mondo a scrivere in maniera sempre più eccitante, e non mi riferisco solo al Village Voice o a Pitchfork. Si avverte il bisogno di competere con una musica che è sexy dalla prima all'ultima nota, scazzata e sexy a un livello tale che per parlarne dovresti infilarti un giubbotto di pelle.
E non m'importa se il decrepito snob che è in voi si è già annoiato: "ah, dunque per quelli di polaroid questa roba è figa. Lo sapevamo già: sono sempre così... tristemente 2001".
Non m'importa, la birra è finita e io sono stanco. Sono stanco delle ragazzine che si sentono più importanti se non rispondono alle mail, stanco dei ragazzini che ti giudicano dalle scarpe e per i quali sei un irrimediabile sfigato perché a quasi trent'anni non ti sei mai comprato una Ben Sherman, stanco di quelli ormai incapaci di parlare senza sarcasmo, di quelli che hanno paura di sudare e non ballano mai una volta. Stanco di quelli che ti interrogano con un sorrisetto per sapere la tua sul disco degli Strokes.
Queste 11 canzoni stipate in mezz'ora mi fanno sentire come se avessi addosso quel giubbotto di pelle, invulnerabile a tutto questo, e mi fanno guardare la città sotto la finestra e anche Piazza Santo Stefano sembra Manhattan, e sono immobile ma è come se saltassi per tutta la stanza. Non è musica da festa, ma è la musica che senti quando tu fai festa, quando ti lasci andare, quando ti fai prendere.
Room on fire è più melodico ma meno potente del suo predecessore. Non ci sono pezzi da sfracello (si sente più la mancanza di una New York City cops che di Last nite) ma l'album ci guadagna in compattezza. Non è il disco dell'anno, e non è un disco di cui ricordi subito tutti i titoli, come successe con Is this it. Ma è un disco che ha qualcosa di "vero" e in cui si muove con forza una un'energia che non saprei definire altro che sincera (ormai definitivamente "alla Strokes"), nonostante questi ragazzi di sincero pare non abbiano proprio più nulla.
Chi se ne frega: con l'indie abbiamo dato e diamo e non smettiamo. Questi fanno rock, entertainment: divertitevi se ci riuscite ancora, se non avete paura di fare brutta figura o di sporcare la maglietta.
A chi sorriderà alla prima strofa di What ever happened?, a chi suderà Reptilia (cugino minore delle vecchie Soma o Barely legal), a chi si sentirà sollevato dall'insolito tempo in levare di Automatic Stop, a chi non si toglierà dalla testa 12:51, a chi ancora alzerà le braccia sull'epico chorus di You talk way too much (attaccato al resto della canzone con lo sputo di un riff minimo che più Television non si potrebbe), a chi si muoverà dinoccolato sul passo seducente di Between love and hate, a chi morirà dalla voglia di avere una maglietta con scritto Meet me in the bathroom, a chi fischietterà Smokey Robinson ascoltando Under Control, a chi sarà frastornato dai due minuti di The way it is, a chi farà sì sì con la testa su The end has no end, e a tutti quelli che riempiranno la pista del Covo se mai qualcuno suonerà ancora I can't win, per quel che vale, farò dono di una lattina di birra autografata.
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