Pane e cioccolata 2
Mercoledì scorso Arturo ha scritto un post intitolato “Pane e cioccolata” dove, attraverso una citazione dalla Italy Gig List di Amedeo Bruni, parlava del valore politico che certa musica assume per noi.
“In timido contrasto” Gaia ha risposto che per lei la musica è del tutto apolitica: “quando la musica non si separa dalla politica, io la prendo e la butto”.
In questo modo, però, mi pare si corra il rischio di relegare la musica a semplice intrattenimento: al momento opportuno, di fronte a “questioni più grandi e più serie”, la musica dovrebbe essere messa da parte.
Ma al contrario, come dice la stessa Gaia, e come scrive anche Amedeo, sentiamo che la musica è parte integrante della nostra vita. Quindi?
Provo a fare chiarezza su un aspetto della questione prendendo a prestito alcune parole di Calvin Johnson che descrivono i primi passi della sua band, i Beat Happening, e della sua etichetta discografica, la K Records:
«We were communicating with normal tools, but we were doing it in our own way, side-stepping the normal forms of communication that are indigenous to the culture that we grew up with – like network television and Top 40 radio.
Those ways of communicating were about consuming and that’s very stifling. We were not consuming, we were creating. And that’s a political statement in this century».
(da Crashing through by Lois Maffeo, libretto contenuto nell’omonimo cd-box uscito nel 2001). (Io amo questa citazione).
Quando con fare distratto chiacchieriamo di indie rock raramente ci ricordiamo che ciò di cui stiamo parlando non è solo musica, ma una rappresentazione della possibilità, una scelta alternativa.
Il valore politico che non si può separare dalla musica che ci piace risiede nel fatto che questo “creare” (scrivere una canzone, inciderla insieme ad altre persone, distribuire un disco in proprio, organizzare da soli un concerto), quando si oppone al “consumare” è già un’attività in qualche modo eccezionale, anche nel caso la musica prodotta parli solo di estate, ragazze e spiagge.
E’ il gesto musicale che diventa politico, non il suo contenuto, e può cambiare la vita.
Una volta alla radio Alberto Simoni disse che una qualsiasi canzone dei Clash aveva avuto più influenza sulla sua vita delle parole di qualunque politico. Ai giorni nostri mi viene in mente la (moderata) dissacrazione messa in atto dal bastard pop, che con il suo approccio orizzontale (come nota Andrea) scombina le categorie applicate dalla critica musicale.
Esiste qui un intero potenziale di disturbo, che ha a che fare con la liberazione e l’innocenza, e che si potrebbe considerare una forma più semplice o primitiva di rivoluzione (sorridete se volete). Ma se per politica intendiamo anche un’attività dell’immaginazione (contrapposta al principio di realtà dell’economia, dell’efficienza, del profitto), allora questo creare che non ha bisogno di regole tranne quelle che vuole darsi (i Beat Happening, come le Black Candy, non sono certo dei virtuosi) a volte mi sembra la forma più vicina all’energia pura che il linguaggio (in questo caso musicale) ci permette.
Di energia, di entusiasmo, di magliette scritte a pennarello e di cassette confezionate con amore e vendute per posta avrebbe dovuto essere fatta la politica. Non è andata così. E la musica che parla di politica (suppongo Gaia si riferisca a cantautori “impegnati” che oggi riesce difficile ascoltare) spesso ci sembra come quei temi di educazione civile che davano al liceo e che facevi svogliatamente quando non avevi studiato altro.
Ci è rimasto, forse, l’indie rock.
Mercoledì scorso Arturo ha scritto un post intitolato “Pane e cioccolata” dove, attraverso una citazione dalla Italy Gig List di Amedeo Bruni, parlava del valore politico che certa musica assume per noi.
“In timido contrasto” Gaia ha risposto che per lei la musica è del tutto apolitica: “quando la musica non si separa dalla politica, io la prendo e la butto”.
In questo modo, però, mi pare si corra il rischio di relegare la musica a semplice intrattenimento: al momento opportuno, di fronte a “questioni più grandi e più serie”, la musica dovrebbe essere messa da parte.
Ma al contrario, come dice la stessa Gaia, e come scrive anche Amedeo, sentiamo che la musica è parte integrante della nostra vita. Quindi?
Provo a fare chiarezza su un aspetto della questione prendendo a prestito alcune parole di Calvin Johnson che descrivono i primi passi della sua band, i Beat Happening, e della sua etichetta discografica, la K Records:
«We were communicating with normal tools, but we were doing it in our own way, side-stepping the normal forms of communication that are indigenous to the culture that we grew up with – like network television and Top 40 radio.
Those ways of communicating were about consuming and that’s very stifling. We were not consuming, we were creating. And that’s a political statement in this century».
(da Crashing through by Lois Maffeo, libretto contenuto nell’omonimo cd-box uscito nel 2001). (Io amo questa citazione).
Quando con fare distratto chiacchieriamo di indie rock raramente ci ricordiamo che ciò di cui stiamo parlando non è solo musica, ma una rappresentazione della possibilità, una scelta alternativa.
Il valore politico che non si può separare dalla musica che ci piace risiede nel fatto che questo “creare” (scrivere una canzone, inciderla insieme ad altre persone, distribuire un disco in proprio, organizzare da soli un concerto), quando si oppone al “consumare” è già un’attività in qualche modo eccezionale, anche nel caso la musica prodotta parli solo di estate, ragazze e spiagge.
E’ il gesto musicale che diventa politico, non il suo contenuto, e può cambiare la vita.
Una volta alla radio Alberto Simoni disse che una qualsiasi canzone dei Clash aveva avuto più influenza sulla sua vita delle parole di qualunque politico. Ai giorni nostri mi viene in mente la (moderata) dissacrazione messa in atto dal bastard pop, che con il suo approccio orizzontale (come nota Andrea) scombina le categorie applicate dalla critica musicale.
Esiste qui un intero potenziale di disturbo, che ha a che fare con la liberazione e l’innocenza, e che si potrebbe considerare una forma più semplice o primitiva di rivoluzione (sorridete se volete). Ma se per politica intendiamo anche un’attività dell’immaginazione (contrapposta al principio di realtà dell’economia, dell’efficienza, del profitto), allora questo creare che non ha bisogno di regole tranne quelle che vuole darsi (i Beat Happening, come le Black Candy, non sono certo dei virtuosi) a volte mi sembra la forma più vicina all’energia pura che il linguaggio (in questo caso musicale) ci permette.
Di energia, di entusiasmo, di magliette scritte a pennarello e di cassette confezionate con amore e vendute per posta avrebbe dovuto essere fatta la politica. Non è andata così. E la musica che parla di politica (suppongo Gaia si riferisca a cantautori “impegnati” che oggi riesce difficile ascoltare) spesso ci sembra come quei temi di educazione civile che davano al liceo e che facevi svogliatamente quando non avevi studiato altro.
Ci è rimasto, forse, l’indie rock.
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