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Erano nuvole pallide in fondo alla pianura vuota, era luce che distinguevi tra le foglie mosse degli alberi, e tu disteso aprivi il palmo della mano e sfioravi fili d’erba, era l’acqua di una fontana che ricominciava daccapo il suo gioco tra i raggi del sole, mentre alle spalle dei ragazzi che suonavano un volto di bambina sfuggiva in continuazione, sfuocato nei toni accesi di rosso e di giallo.
Come faccio a raccontarti il concerto dei Sigur Ros di ieri sera a Ferrara?
C’era del ghiaccio, d’accordo, ma anche del vapore bollente, e molto vento, soprattutto.
Come faccio a dirti che la prima parola che ho pensato è stata, banalmente, “liturgia”?
Non ci riesco, perché fino alla fine delle quasi due ore di spettacolo per me è rimasto un mistero come questi ragazzi islandesi riescano a far ascoltare un tale genere di musica alla mia generazione. Era facile scherzare, mentre suonavano i Sigur Ros, ma come è facile scherzare durante un rito religioso: un po’ meschinamente, parlando con una mano davanti alla bocca.
Perché la musica che suonano è musica sacra, lo si capisce presto, molto meglio che su disco. E la loro “classicità” è qualcosa che va oltre il quartetto d’archi che li accompagna, oltre l’inchino finale al pubblico tutti per mano, oltre i pianoforti prestati da lontane avanguardie, oltre (l’encomiabile) silenzio degli spettatori come neanche a teatro.
Dal vivo, per paradosso, i Sigur Ros utilizzano in misura ancora maggiore parte del linguaggio (post)rock: qualche cavalcata mogwaiana (di quelli vecchi) c’è stata e ha fatto battere i piedi e stringere i pugni a noi lì, seduti composti nella Piazza del Castello di Ferrara.
E anche qualche giro di basso lontano parente dei Joy Division si è riconosciuto e ha permesso che ci si potesse finalmente scambiare qualche commento, come se fossimo a un qualsiasi concerto.
Ma sono state digressioni, fughe in picchiata verso terra concesse soltanto per risalire presto verso il vento che scuoteva e placava la notte d’estate. La musica aveva a che fare con l’intera volta celeste, non soltanto con l’altra faccia della luna, come qualcuno sostiene. La musica aveva a che fare con il tempo, quello stabilito e sospeso dai Sigur Ros, che richiamava alla mente altri secoli e mondi, e pace senza vincoli, e le canzoni (se così si possono ancora chiamare) avevano forme che facevano sembrare le leggi della fisica bizzarre eccezioni.
Andate a vederli dal vivo, è tutto quello che posso dirvi. E per una volta non siate troppo scettici.
Erano nuvole pallide in fondo alla pianura vuota, era luce che distinguevi tra le foglie mosse degli alberi, e tu disteso aprivi il palmo della mano e sfioravi fili d’erba, era l’acqua di una fontana che ricominciava daccapo il suo gioco tra i raggi del sole, mentre alle spalle dei ragazzi che suonavano un volto di bambina sfuggiva in continuazione, sfuocato nei toni accesi di rosso e di giallo.
Come faccio a raccontarti il concerto dei Sigur Ros di ieri sera a Ferrara?
C’era del ghiaccio, d’accordo, ma anche del vapore bollente, e molto vento, soprattutto.
Come faccio a dirti che la prima parola che ho pensato è stata, banalmente, “liturgia”?
Non ci riesco, perché fino alla fine delle quasi due ore di spettacolo per me è rimasto un mistero come questi ragazzi islandesi riescano a far ascoltare un tale genere di musica alla mia generazione. Era facile scherzare, mentre suonavano i Sigur Ros, ma come è facile scherzare durante un rito religioso: un po’ meschinamente, parlando con una mano davanti alla bocca.
Perché la musica che suonano è musica sacra, lo si capisce presto, molto meglio che su disco. E la loro “classicità” è qualcosa che va oltre il quartetto d’archi che li accompagna, oltre l’inchino finale al pubblico tutti per mano, oltre i pianoforti prestati da lontane avanguardie, oltre (l’encomiabile) silenzio degli spettatori come neanche a teatro.
Dal vivo, per paradosso, i Sigur Ros utilizzano in misura ancora maggiore parte del linguaggio (post)rock: qualche cavalcata mogwaiana (di quelli vecchi) c’è stata e ha fatto battere i piedi e stringere i pugni a noi lì, seduti composti nella Piazza del Castello di Ferrara.
E anche qualche giro di basso lontano parente dei Joy Division si è riconosciuto e ha permesso che ci si potesse finalmente scambiare qualche commento, come se fossimo a un qualsiasi concerto.
Ma sono state digressioni, fughe in picchiata verso terra concesse soltanto per risalire presto verso il vento che scuoteva e placava la notte d’estate. La musica aveva a che fare con l’intera volta celeste, non soltanto con l’altra faccia della luna, come qualcuno sostiene. La musica aveva a che fare con il tempo, quello stabilito e sospeso dai Sigur Ros, che richiamava alla mente altri secoli e mondi, e pace senza vincoli, e le canzoni (se così si possono ancora chiamare) avevano forme che facevano sembrare le leggi della fisica bizzarre eccezioni.
Andate a vederli dal vivo, è tutto quello che posso dirvi. E per una volta non siate troppo scettici.
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