I'm waiting for that feeling
(waiting for that feeling)
Pensavo alla sensazione curiosa – e per niente piacevole – che deve provare l’artista quando si rende conto di aver creato qualcosa che gli sopravviverà. Probabilmente non è la sua opera migliore. Di certo non è la sua preferita. L’ha scritta in un momento di pausa, per scherzo, pensando: “uh, questa piacerà!”, con un sorriso di superiorità, o con un po’ di vergogna. Ma non importa.
L’ha scritta. Tra cento anni nessuno si ricorderà più di lui, ma l’opera sarà ancora in circolazione. Le opere hanno storie stranissime. Sarà una canzone che si fischietta ancora, una ninna nanna tedesca che diventa un canto delle mondine che diventa un inno partigiano. Sarà un apologo che diventa una barzelletta, una situazione comica che passa da canovaccio in canovaccio e finisce in un film di Hollywood o in una sitcom. Sarà il post di un blog, che sopravvive al suo autore e lo eclissa.
“Ahò, facce Ungaretti!”
“No, Ungaretti no, basta”.
Eh? Sì, scusate, mi presento: sono il coccodrillo di Polaroid. Di norma mi faccio vivo solo quando muore qualcuno. Non è che porto sfiga? Non so, non indago. In fatto di gusti musicali sono un po’ necrofilo, questo sì: però sabato sono andato a vedere i Blur a Milano. I Blur sono vivi e scalcianti, anche se cominciano a perdere qualche pezzo.
Com’è andata? Beh, mi aspettavo di più. Più canzoni (eppure ne hanno fatte parecchie), e più gente. Oddio, l’Alcatraz era pieno. Ma i Blur sono la storia del pop inglese. Il 40% di quello che ascoltiamo ogni giorno per caso o per scelta è pop inglese. Quindi mi aspettavo di più. Più fila, più magliette, più cori da stadio.
Poi ho pensato che è normale: i Blur sono il tipico gruppo da palazzetto. E se dividiamo (rozzamente) le band di tutto il mondo in “gruppi da stadio” e “gruppi da palazzetto”, ci rendiamo conto che gli inglesi negli stadi non ci vanno volentieri. Almeno nei nostri. L’ultimo vero “gruppo da stadio” inglese sono stati i Pink Floyd di Gilmour: ve ne vengono in mente altri? Anche negli’80, quando gli u2 (irlandesi) e i Simple Minds (scozzesi) riempivano gli stadi, i Cure e gli Smiths (inglesi) facevano strage di palazzetti. Non credo che sia un sintomo della spocchia inglese, quanto un modo diverso di intendere il concerto: i concerti da stadio sono grandi eventi popolari, che si radicano nella memoria collettiva. Negli stadi ci vanno tutti, anche quelli che comprano un disco all’anno.
Beh, è curioso, ma l’Inghilterra (che continua a fare ottimo pop), sembra non riuscire più a produrre un gruppo da stadio. Produce tanti gruppi che suonano bene, fanno video e scalano le classifiche, ma non riempiono uno stadio. Neanche ci provano. Quelli che a un certo punto hanno avuto i numeri per provarci (Stone Roses, Oasis, Verve, Radiohead…) vengono colpiti da una curiosa maledizione: si sciolgono, litigano con la major, diventano rumoristi d’avanguardia, tutto pur di non diventare vedettes da stadio. Può darsi che temano, inconsciamente, di invecchiare come Mick Jagger e soci.
Però va tutto bene, chi se ne frega se non siamo a uno stadio, anzi nei palazzetti la musica si sente meglio, c’è meno gente.
Ma è curioso quello che è successo con “Tender”.
“Tender” non è il pezzo migliore dei Blur, anzi. Sembra scritto apposta per tirar su un album piuttosto introspettivo. Non ha avuto un successo clamoroso, ma persistente. Ricordo di averla sentita cantare nello scompartimento di un Parigi-Bologna (da italiani, ovviamente). Non è poco, per una canzone pop inglese. È facile da ricordare, immediatamente riconoscibile, e rassicurante come una litania. I Blur si portano in giro i coristi, ma a Milano non ne avrebbero avuto bisogno. L’abbiamo cantata tutti, dall’inizio alla fine. Poi, quando i Blur hanno fatto per cominciare il pezzo seguente, noi ce ne siamo fregati e abbiamo continuato col coro:
Oh my babe
Oh my babe
Oh my
Oh my
Alla fine anche loro sono dovuti venirci dietro.
Chissà cos’ha pensato Damon Albarn in quel momento. I gruppi di stadio ci vanno a nozze, con queste situazioni, ma i Blur non sono un gruppo da stadio, avevano iniziato alle 21.05 e alle 22.30 avevano intenzione di staccare, bis già compresi nella scaletta. Sotto i suoi occhi “Tender” cominciava a camminare e se ne andava per i fatti suoi. Non è la sua canzone migliore, ma tra cento anni probabilmente sarà ancora in giro, con parole diverse: la canteranno sugli scompartimenti o sulle barricate, senza mai sospettare che sono esistiti i Blur e che suonavano all’Alcatraz.
“Tender” è nostra, ormai, non gli appartiene più. È la canzone di un (grande) gruppo inglese che per un momento ha provato a essere un gruppo da stadio. E forse poteva farcela. Ma forse è meglio così.
(waiting for that feeling)
Pensavo alla sensazione curiosa – e per niente piacevole – che deve provare l’artista quando si rende conto di aver creato qualcosa che gli sopravviverà. Probabilmente non è la sua opera migliore. Di certo non è la sua preferita. L’ha scritta in un momento di pausa, per scherzo, pensando: “uh, questa piacerà!”, con un sorriso di superiorità, o con un po’ di vergogna. Ma non importa.
L’ha scritta. Tra cento anni nessuno si ricorderà più di lui, ma l’opera sarà ancora in circolazione. Le opere hanno storie stranissime. Sarà una canzone che si fischietta ancora, una ninna nanna tedesca che diventa un canto delle mondine che diventa un inno partigiano. Sarà un apologo che diventa una barzelletta, una situazione comica che passa da canovaccio in canovaccio e finisce in un film di Hollywood o in una sitcom. Sarà il post di un blog, che sopravvive al suo autore e lo eclissa.
“Ahò, facce Ungaretti!”
“No, Ungaretti no, basta”.
Eh? Sì, scusate, mi presento: sono il coccodrillo di Polaroid. Di norma mi faccio vivo solo quando muore qualcuno. Non è che porto sfiga? Non so, non indago. In fatto di gusti musicali sono un po’ necrofilo, questo sì: però sabato sono andato a vedere i Blur a Milano. I Blur sono vivi e scalcianti, anche se cominciano a perdere qualche pezzo.
Com’è andata? Beh, mi aspettavo di più. Più canzoni (eppure ne hanno fatte parecchie), e più gente. Oddio, l’Alcatraz era pieno. Ma i Blur sono la storia del pop inglese. Il 40% di quello che ascoltiamo ogni giorno per caso o per scelta è pop inglese. Quindi mi aspettavo di più. Più fila, più magliette, più cori da stadio.
Poi ho pensato che è normale: i Blur sono il tipico gruppo da palazzetto. E se dividiamo (rozzamente) le band di tutto il mondo in “gruppi da stadio” e “gruppi da palazzetto”, ci rendiamo conto che gli inglesi negli stadi non ci vanno volentieri. Almeno nei nostri. L’ultimo vero “gruppo da stadio” inglese sono stati i Pink Floyd di Gilmour: ve ne vengono in mente altri? Anche negli’80, quando gli u2 (irlandesi) e i Simple Minds (scozzesi) riempivano gli stadi, i Cure e gli Smiths (inglesi) facevano strage di palazzetti. Non credo che sia un sintomo della spocchia inglese, quanto un modo diverso di intendere il concerto: i concerti da stadio sono grandi eventi popolari, che si radicano nella memoria collettiva. Negli stadi ci vanno tutti, anche quelli che comprano un disco all’anno.
Beh, è curioso, ma l’Inghilterra (che continua a fare ottimo pop), sembra non riuscire più a produrre un gruppo da stadio. Produce tanti gruppi che suonano bene, fanno video e scalano le classifiche, ma non riempiono uno stadio. Neanche ci provano. Quelli che a un certo punto hanno avuto i numeri per provarci (Stone Roses, Oasis, Verve, Radiohead…) vengono colpiti da una curiosa maledizione: si sciolgono, litigano con la major, diventano rumoristi d’avanguardia, tutto pur di non diventare vedettes da stadio. Può darsi che temano, inconsciamente, di invecchiare come Mick Jagger e soci.
Però va tutto bene, chi se ne frega se non siamo a uno stadio, anzi nei palazzetti la musica si sente meglio, c’è meno gente.
Ma è curioso quello che è successo con “Tender”.
“Tender” non è il pezzo migliore dei Blur, anzi. Sembra scritto apposta per tirar su un album piuttosto introspettivo. Non ha avuto un successo clamoroso, ma persistente. Ricordo di averla sentita cantare nello scompartimento di un Parigi-Bologna (da italiani, ovviamente). Non è poco, per una canzone pop inglese. È facile da ricordare, immediatamente riconoscibile, e rassicurante come una litania. I Blur si portano in giro i coristi, ma a Milano non ne avrebbero avuto bisogno. L’abbiamo cantata tutti, dall’inizio alla fine. Poi, quando i Blur hanno fatto per cominciare il pezzo seguente, noi ce ne siamo fregati e abbiamo continuato col coro:
Oh my babe
Oh my babe
Oh my
Oh my
Alla fine anche loro sono dovuti venirci dietro.
Chissà cos’ha pensato Damon Albarn in quel momento. I gruppi di stadio ci vanno a nozze, con queste situazioni, ma i Blur non sono un gruppo da stadio, avevano iniziato alle 21.05 e alle 22.30 avevano intenzione di staccare, bis già compresi nella scaletta. Sotto i suoi occhi “Tender” cominciava a camminare e se ne andava per i fatti suoi. Non è la sua canzone migliore, ma tra cento anni probabilmente sarà ancora in giro, con parole diverse: la canteranno sugli scompartimenti o sulle barricate, senza mai sospettare che sono esistiti i Blur e che suonavano all’Alcatraz.
“Tender” è nostra, ormai, non gli appartiene più. È la canzone di un (grande) gruppo inglese che per un momento ha provato a essere un gruppo da stadio. E forse poteva farcela. Ma forse è meglio così.
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