Cool as Pupi Avati
Secondo me Pupi Avati è il più grande regista indie rock italiano.
Mentre il popolo dei bloggers si strugge a muccinate, la redazione di polaroid ha visto per voi Il Cuore Altrove.
E vi rivelerò che ieri sera, lì seduto al buio, quello che lentamente affiorava sulla mia facciona sfuocata era un sorriso: non tanto per la simpatia ispirata dalla goffaggine del protagonista (Neri Marcorè o Alberto Angela, as you like it), o per la classe regalata da Giancarlo Giannini, o per la bella Incontrada un po' fuori luogo, quanto perché mi accorgevo che stavamo guardando il solito, caro, vecchio, prevedibilissimo film di Pupi Avati.
Il fatto è che ieri sera quella storia, quei colori, quel modo di recitare, quell'ennesima ricostruzione della Bologna stile liberty, insomma l'intero film mi è sembrato una cosa straordinariamente fuori dal tempo.
E non nel senso che Avati "si pone al di sopra delle mode", ma proprio perché, da vero loser, continua imperterrito a fare questi suoi film sottovoce, perbenissimi (ok, a parte il penultimo "I cavalieri che fecero l'impresa" e certe cose più vecchie), uno dopo l'altro, con sfumature infintesimali, fregandosene di quello che succede al cinema intorno.
D'accordo, il film non è concluso benissimo, e proprio la musica è una delle cose meno sopportabili.
Ma lo stesso: quella sua storia esile (quando oggi il "vero" narrare sembra essere solo il narrare avventure), quel suo campionario sentimentale così ridotto all'osso (un buon guardaroba per tutte le stagioni), quel suo fare riferimento a una cultura (vogliamo dire borghese? ma sì, va') ormai incomprensibile, mi hanno ispirato una simpatia che ha sorpreso me per primo.
Perché Avati lo fa senza ingenuità, mi piace supporre oggi, ma con innocenza (forse).
Ah, se solo fosse nato a Olympia, Washington.
Secondo me Pupi Avati è il più grande regista indie rock italiano.
Mentre il popolo dei bloggers si strugge a muccinate, la redazione di polaroid ha visto per voi Il Cuore Altrove.
E vi rivelerò che ieri sera, lì seduto al buio, quello che lentamente affiorava sulla mia facciona sfuocata era un sorriso: non tanto per la simpatia ispirata dalla goffaggine del protagonista (Neri Marcorè o Alberto Angela, as you like it), o per la classe regalata da Giancarlo Giannini, o per la bella Incontrada un po' fuori luogo, quanto perché mi accorgevo che stavamo guardando il solito, caro, vecchio, prevedibilissimo film di Pupi Avati.
Il fatto è che ieri sera quella storia, quei colori, quel modo di recitare, quell'ennesima ricostruzione della Bologna stile liberty, insomma l'intero film mi è sembrato una cosa straordinariamente fuori dal tempo.
E non nel senso che Avati "si pone al di sopra delle mode", ma proprio perché, da vero loser, continua imperterrito a fare questi suoi film sottovoce, perbenissimi (ok, a parte il penultimo "I cavalieri che fecero l'impresa" e certe cose più vecchie), uno dopo l'altro, con sfumature infintesimali, fregandosene di quello che succede al cinema intorno.
D'accordo, il film non è concluso benissimo, e proprio la musica è una delle cose meno sopportabili.
Ma lo stesso: quella sua storia esile (quando oggi il "vero" narrare sembra essere solo il narrare avventure), quel suo campionario sentimentale così ridotto all'osso (un buon guardaroba per tutte le stagioni), quel suo fare riferimento a una cultura (vogliamo dire borghese? ma sì, va') ormai incomprensibile, mi hanno ispirato una simpatia che ha sorpreso me per primo.
Perché Avati lo fa senza ingenuità, mi piace supporre oggi, ma con innocenza (forse).
Ah, se solo fosse nato a Olympia, Washington.
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