Per A e J

Avrei dovuto scrivere questo post un paio di settimane fa. Così avrei potuto tempestivamente e "a caldo" chiosare Alias del manifesto, secondo cui i libri di Hanif Kureishi sarebbero guastati in egual misura dall'ingenuità e dal mestiere.
Oppure avrei potuto raccontare, allegando il consueto entusiasmo autoreferenziale, di come avevamo letto l'inizio del quinto capitolo in radio qualche sera prima, con in sottofondo i Traffic di Hole in my shoe (una delle nostre rare scelte musicali congruenti).

Ma sono pigro e perciò dirò soltanto che la lettura di Il Budda delle periferie è stata una delle cose migliori di questo inizio d'autunno. Un vero e proprio romanzo di formazione aggiornato ai Settanta britannici, osservati dal punto di vista di un figlio di immigrati pakistani.
Si va più o meno dallo scioglimento dei Beatles all'ascesa politica della Thatcher, passando per la nascita del punk e il dissolversi della stagione delle comuni. Si confondono gusti musicali e politici, disordinate preferenze sessuali e idee decisamente radicali sulla famiglia e sull'arte. Ed è lì, in quel continuo mescolarsi di piani (che poi è peculiare di come si vive la vita, mi pare) che risiede buona parte della forza di questo romanzo.

Poiché perdere tempo a cercare di scoprire sé stessi, come se non si fosse già sé stessi, sembra sia un fraintendimento che poi si paga (con il tempo perso, con la decisione sbagliata al momento sbagliato, con una paralizzante inconcludenza che tutti, immagino, temiamo di avvertire in quel sapore amaro in bocca).
Mentre riflettere sulle scelte da fare e quelle fatte, intuire l'attimo in cui si compongono in una storia (la nostra come quella di Karim, il protagonista), e infine riuscire a pareggiare le entrate e le uscite del bilancio alla voce affetti, pare sia ciò che alla fine dà realmente significato a tutta la faccenda.
Un magnifico regalo, grazie.

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