Sì, è vero, cara ellegi: Full Frontal mette voglia di andare al cinema a vedere un film, come se non avessimo ancora cominciato per davvero.
Ne è un sintomo lampante la battuta di Brad Pitt dopo i titoli di coda, che oltretutto rappresenta pure una feroce presa per il culo da parte di Soderbergh (ai danni del figaccione? Nei nostri confronti? Moh, chissenefrega...)
E poi, soprattutto è un film sul film nel film. Oppure un film nel film sul film.
Yeah.
All’uscita c’erano tutti questi universitari mooolto compresi nella parte che stavano letteralmente "contando" sulle dita quanti piani narrativi avevano colto...
Ti veniva voglia di avvicinarti e buttare lì frasi del tipo: «Questo film stabilisce nuovi paradigmi ermeneutici: da oggi tutte le parole che cominciano con il suffisso "meta" implicheranno parole con il suffisso "auto"» (ma c’è da scommettere che nessuno di loro avrebbe associato metalinguaggio ad autoerotismo, né metacinema ad autolesionismo).
Sarebbe stata una frase che, a giudicare da Full Frontal, a Los Angeles sarebbe piaciuta a qualcuno e sarebbe finita nel prossimo film di Soderbergh. Beh, a patto che fosse filmata con una macchina da presa digitale Canon e poi rielaborata con un Mac, (i siti dedicati al film sono tutti un banner dietro l’altro... eeeh, peeerò: il design, eeeh sì sì, certo certo...)
E poi, siamo sinceri: qualcuno mi spieghi quante cose sul cinema racconta davvero Full Frontal? Quella sugli attori di colore, ok: poi?
Perché il metalinguaggio si risolve sempre solo in un allargamento della macchina da presa che riprende anche un’altra macchina da presa, un set e un regista?
Ricordo un’inquadratura di John Jost (ma era davvero lui?) di un film di più di trent’anni fa. Era già più avanti di Full Frontal: la sequenza iniziava con la ripresa di Jost in piedi davanti alla macchina da presa. L’inquadratura si allargava e da alcune casse per terra si intuiva che ci trovavamo di fronte a uno specchio, ma l’inquadratura si allargava ulteriormente: lo specchio era in mezzo a un bosco, che era alle spalle del regista ed era riflesso nello specchio.
Il linguaggio (quello cinematografico come qualunque altro) e a maggior ragione il metalinguaggio stanno nel bosco, cioè nella natura, nel mondo. E se il linguaggio smette di parlare del mondo per parlare dello specchio, boh, resta liscio, non fa presa su nulla, esaurisce presto il discorso.
Un po’ come Full Frontal direi: bello, liscio e patinato (anche quando sgranato in digitale: uh, così contemporaneo!).
Sproloquiato fin qui, non esito ad ammettere che ho passato la pausa pranzo a guardare foto di Catherine Keener su internet: gggiesù, io la amo quella donna...
Ne è un sintomo lampante la battuta di Brad Pitt dopo i titoli di coda, che oltretutto rappresenta pure una feroce presa per il culo da parte di Soderbergh (ai danni del figaccione? Nei nostri confronti? Moh, chissenefrega...)
E poi, soprattutto è un film sul film nel film. Oppure un film nel film sul film.
Yeah.
All’uscita c’erano tutti questi universitari mooolto compresi nella parte che stavano letteralmente "contando" sulle dita quanti piani narrativi avevano colto...
Ti veniva voglia di avvicinarti e buttare lì frasi del tipo: «Questo film stabilisce nuovi paradigmi ermeneutici: da oggi tutte le parole che cominciano con il suffisso "meta" implicheranno parole con il suffisso "auto"» (ma c’è da scommettere che nessuno di loro avrebbe associato metalinguaggio ad autoerotismo, né metacinema ad autolesionismo).
Sarebbe stata una frase che, a giudicare da Full Frontal, a Los Angeles sarebbe piaciuta a qualcuno e sarebbe finita nel prossimo film di Soderbergh. Beh, a patto che fosse filmata con una macchina da presa digitale Canon e poi rielaborata con un Mac, (i siti dedicati al film sono tutti un banner dietro l’altro... eeeh, peeerò: il design, eeeh sì sì, certo certo...)
E poi, siamo sinceri: qualcuno mi spieghi quante cose sul cinema racconta davvero Full Frontal? Quella sugli attori di colore, ok: poi?
Perché il metalinguaggio si risolve sempre solo in un allargamento della macchina da presa che riprende anche un’altra macchina da presa, un set e un regista?
Ricordo un’inquadratura di John Jost (ma era davvero lui?) di un film di più di trent’anni fa. Era già più avanti di Full Frontal: la sequenza iniziava con la ripresa di Jost in piedi davanti alla macchina da presa. L’inquadratura si allargava e da alcune casse per terra si intuiva che ci trovavamo di fronte a uno specchio, ma l’inquadratura si allargava ulteriormente: lo specchio era in mezzo a un bosco, che era alle spalle del regista ed era riflesso nello specchio.
Il linguaggio (quello cinematografico come qualunque altro) e a maggior ragione il metalinguaggio stanno nel bosco, cioè nella natura, nel mondo. E se il linguaggio smette di parlare del mondo per parlare dello specchio, boh, resta liscio, non fa presa su nulla, esaurisce presto il discorso.
Un po’ come Full Frontal direi: bello, liscio e patinato (anche quando sgranato in digitale: uh, così contemporaneo!).
Sproloquiato fin qui, non esito ad ammettere che ho passato la pausa pranzo a guardare foto di Catherine Keener su internet: gggiesù, io la amo quella donna...
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