polaroid per Chiara e Sergio
Se non ci fosse stato troppo freddo avremmo potuto anche arrampicarci su qualche albero, come Zelda e Scott Fitzgerald alla fine delle feste migliori. E invece abbiamo ballato fitti, e senza andare tanto per il sottile, ridendo e facendo cadere bicchieri e occhiali, strusciando le ragazze che erano tutte davvero molto belle e si muovevano che era un piacere.
È andata proprio come voleva Sergio: è stata una festa, un abbraccio, un salto, una spinta, un grande bacio con le braccia al cielo.
E quando davanti alla torta lui e Chiara hanno pronunciato un discorso (che pagherei pur di ricordare, ma che so di avere applaudito stringendo con i denti un calice traboccante di bollicine), ho pensato ecco, la rincorsa degli eventi e la ferma verità dei fatti, i figli, gli amici e i figli degli amici (anche loro a giocare sul prato dall’altra parte della grande casa in mezzo alla campagna, come altri alla loro età, proprio in quel posto), ho pensato a come questa sera stranamente ci guardavamo tutti negli occhi mentre si parlava e ho pensato alla musica e al tempo passato ad ascoltarla sovrappensiero, fissando un punto molto basso del cielo, e se era piovuto ed era sereno si vedevano in trasparenza le colline di Bologna, lontano. Ho pensato, senza realmente rendermene conto perché non ero davvero nella condizione, al prendere in mano la propria vita e sapere cosa fare perché non rimanga soltanto un progetto, una rappresentazione.
E lui, forse proprio perché racconta di intendersi di architettura, ci stava dicendo qualcosa di tutto questo, tra le fiaccole, la musica che suonava nell’altra sala e le luci da festa anni ottanta, tra le nostre cravatte allentate, i tacchi insolenti, gli scherzi infantili e il nostro acido cinico sciupato e custodito.
Ho brindato e non potevo fare altro.
Poi, quando te ne vai da una festa in quello stato, guidando senza voce, pensi sempre che qualcuno il giorno dopo dovrà raccogliere i vuoti, dare aria alle stanze e lavare centinaia di bicchieri. E nella notte, mentre cerchi di tornare a casa, ti immagini già come sarà quel momento del pomeriggio del giorno dopo, quando finalmente si siederanno in veranda, con un sospiro per il lavoro finito e tenendosi la mano al sole tiepido di settembre. Ma subito si alzeranno, ché ormai sarà l’ora del tè e avranno già voglia di mettere l’acqua sul fuoco.
Se non ci fosse stato troppo freddo avremmo potuto anche arrampicarci su qualche albero, come Zelda e Scott Fitzgerald alla fine delle feste migliori. E invece abbiamo ballato fitti, e senza andare tanto per il sottile, ridendo e facendo cadere bicchieri e occhiali, strusciando le ragazze che erano tutte davvero molto belle e si muovevano che era un piacere.
È andata proprio come voleva Sergio: è stata una festa, un abbraccio, un salto, una spinta, un grande bacio con le braccia al cielo.
E quando davanti alla torta lui e Chiara hanno pronunciato un discorso (che pagherei pur di ricordare, ma che so di avere applaudito stringendo con i denti un calice traboccante di bollicine), ho pensato ecco, la rincorsa degli eventi e la ferma verità dei fatti, i figli, gli amici e i figli degli amici (anche loro a giocare sul prato dall’altra parte della grande casa in mezzo alla campagna, come altri alla loro età, proprio in quel posto), ho pensato a come questa sera stranamente ci guardavamo tutti negli occhi mentre si parlava e ho pensato alla musica e al tempo passato ad ascoltarla sovrappensiero, fissando un punto molto basso del cielo, e se era piovuto ed era sereno si vedevano in trasparenza le colline di Bologna, lontano. Ho pensato, senza realmente rendermene conto perché non ero davvero nella condizione, al prendere in mano la propria vita e sapere cosa fare perché non rimanga soltanto un progetto, una rappresentazione.
E lui, forse proprio perché racconta di intendersi di architettura, ci stava dicendo qualcosa di tutto questo, tra le fiaccole, la musica che suonava nell’altra sala e le luci da festa anni ottanta, tra le nostre cravatte allentate, i tacchi insolenti, gli scherzi infantili e il nostro acido cinico sciupato e custodito.
Ho brindato e non potevo fare altro.
Poi, quando te ne vai da una festa in quello stato, guidando senza voce, pensi sempre che qualcuno il giorno dopo dovrà raccogliere i vuoti, dare aria alle stanze e lavare centinaia di bicchieri. E nella notte, mentre cerchi di tornare a casa, ti immagini già come sarà quel momento del pomeriggio del giorno dopo, quando finalmente si siederanno in veranda, con un sospiro per il lavoro finito e tenendosi la mano al sole tiepido di settembre. Ma subito si alzeranno, ché ormai sarà l’ora del tè e avranno già voglia di mettere l’acqua sul fuoco.
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