«Oggi quel viaggio lo si farebbe probabilmente in automobile, con l’idea di renderlo così più gradevole. Come si vedrà, fatto in quel modo, esso sarebbe, in un certo senso, più vero, giacché si seguirebbero più da vicino, in un’intimità più stretta, le varie gradazioni con cui cambia la faccia della terra.
Ma, in fin dei conti, il piacere specifico del viaggio non è di poter scendere lungo il percorso e fermarsi quando si è stanchi, bensì di rendere più che si possa profondo - e non già insensibile - il divario tra la partenza e l’arrivo, di sentirlo nella sua totalità, intatto, quale era dentro di noi quando la nostra immaginazione ci trasportava dal luogo in cui vivevamo fin nel cuore di un luogo desiderato, con un balzo che ci sembrava miracoloso non tanto perché colmava una distanza, quanto perché univa due distinte individualità della terra, conducendoci da un nome a un altro nome: balzo schematizzato (più che da una passeggiata in cui, per la possibilità di scendere dove si vuole, non esiste un vero e proprio arrivo) dall’operazione misteriosa che si consumava in quei luoghi speciali che sono le stazioni, le quali, sebbene in pratica non facciano corpo con al città, contengono l’essenza della sua personalità così come ne portano il nome su un cartello segnaletico».
Marcel Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore
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