Hope I die before I get old
Chi di voi si è fatto un minimo di cultura musicale sui dischi del padre rocchettaro (o viceversa chi come me in casa non aveva altro che una vecchia cassettina di De Andrè e Lauzi e la cultura se l'è fatta a base di incursioni nello scaffale dei nice price), conoscerà senz'altro My generation degli Who, una canzone che per una volta non parla della sua generazione, ma al massimo di quella dei genitori. Oltre a essere uno standard del rock, la canzone si fa notare per due curiose innovazioni:
1. Per la prima volta (ad anni luce da qualsiasi progenitore del rap) un cantante balbettava ostentatamente: talkin' 'bout my g-g-g-g-eneration.
2. L'assolo, pregevolissimo, non era del chitarrista, Pete Townshend, che in seguito si sarebbe rivelato uno dei grandi compositori del rock, ma che a quei tempi per sua stessa ammissione era poco più di una pippa. No: l'assolo lo suonava il bassista, John Entwhistle. Tirate fuori il vecchio disco logoro, spolverate il piatto e riattacatelo alle casse, e suonatelo a massimo volume: varrà la pena per una volta di disturbare il vicino, perché John Entwhistle è morto, il 27 giugno. Aveva 57 anni.
Gli Who non hanno avuto la fortuna proverbiale dei Beatles e dei Rolling Stones, anche se tra '64 e '74 non furono meno innovativi (oltre a essere molto più convincenti dal vivo). Se gli Stones furono il primo gruppo manifestamente 'sessuale', gli Who furono, da subito, il gruppo 'violento': tuttavia non hanno avuto dei veri e propri eredi: i mods (corteggiati dagli who nei primi anni) presero strade più poppeggianti, i filoni hard rock e heavy metal sono scaturiti da altre sorgenti e il "caso Who" è rimasto un capitolo isolato, benché fulgido, della storia del Rock. La stagione della violenza iniziò proprio con My generation: nel finale Townshend, saturo di invidia per la maggior abilità del collega, apre al massimo il suo Marshall e, letteralmente, esplode, mentre Keith Moon alla batteria lo asseconda con raffiche di rullante. Nelle interviste, Pete si scherniva così: "la gente mi crede un grande chitarrista, ma in realtà io do solo il massimo al volume e suono un mi distorto, e tutti dicono: Wow!" A questo punto, di solito, prendeva la chitarra per il manico e la sbatteva contro l'amplificatore, fracassando uno dei due o magari entrambi, la cosa non era programmata. Lo aveva fatto una volta per sbaglio in un locale col soffitto basso: era talmente piaciuto che da allora dovette ripeterlo a ogni concerto, e anche in tv. Incoraggiati dal successo, Pete e gli altri iniziarono a distruggere anche le camere d'albergo, con qualche ripercussione sul budget, visto che dopo qualche anno di concerti in USA e nel Regno erano più indebitati di prima.
In questa allegra compagnia, John era l'elemento più in ombra, come spesso accade al bassista. Gli Who, in teoria, erano un gruppo sbilanciato sul lato ritmico (essendo lo stesso Pete nient'altro che una valida rhythm guitar). In teoria, perché Keith Moon era un pazzo, e se gli andava era capace di suonare scariche per tutta la canzone. Schiacciato tra un matto con le bacchette, un chitarrista-pippa con la mania di distruggere strumenti, e il classico cantante biondone, c'è da chiedersi come sia riuscito a sopravvivere, il mite John. Nella foto sul retro di Who's next (1971), seduto in disparte, emerge con la testa da quello che sembra il ripostiglio di un teatro parrocchiale, con sedie di plastica accatastate. Dal fondo osserva i tre folli al tavolo con sospetto: sotto i due baffi a manubrio sembra Ringo Starr. Benché fosse un virtuoso dello strumento (e in My generation lo dimostra), John era anche il più disciplinato del gruppo, anzi, era l'unico, e probabilmente dobbiamo alla sua tranquillità se il sodalizio degli Who è durato tanto passando tra le derive religiose di Townshend, i problemi di droga, e la morte di Moon nei primi anni Ottanta.
Perché, oltre a distruggere camere d'albergo e strumenti, gli Who erano noti anche per un'altra peculiarità: litigavano continuamente. Anche questa era una novità: Lennon e McCartney, per esempio, non litigavano mai: semplicemente a un certo punto smisero di rivolgersi la parola. Gli Who invece litigavano per i classici motivi per cui litigano i membri di un complesso: tira giù la chitarra, non sento la voce, no, tira su tu la voce piuttosto. Una volta, esasperato dalle continue richieste di abbassare e rialzare, il povero John mandò tutti a fuck out, fece per scendere dal palco e… fece un volo di tre-quattro metri. Anche quando Pete scoprì di essere un produttore lambiccato, di quelli che piazzano i quartetti d'archi e inventano complicate suites quadrofoniche, i litigi continuarono, e Roger telefonava a Pete per dirgli: "sei un produttore del cazzo, in Quadrophenia non riesco a sentire la mia voce". "Ma vaffanculo, Roger, forse dovresti far riparare il tuo hi-fi". Bisogna dire che quando si ha la voce di Roger Daltrey c'è poco da coprire: andate a sentire Love reign o'er me.
Come altri musicisti tranquilli e disciplinati, John, in realtà, era anche un discreto compositore, se solo qualcuno glielo avesse chiesto. Da questo punto di vista fu più fortunato di Bill Wyman, il suo collega bassista degli Stones, che per incidere una canzone scritta da lui dovette aspettare che Jagger e Richard fossero in galera per atti osceni. "Cazzo, Bill, e adesso cosa facciamo? C'è lo studio prenotato per domani!" "Ahem… beh, io avrei scritto un pezzo"). John invece riuscì sempre a proporre qualcosa di suo, anche quando Pete trascinò il gruppo in opere rock dalla trama a dir poco astrusa. Tommy (1969), per chi non lo sa, è la storia di un ragazzo figlio di un aviatore morto in guerra (come il protagonista di The Wall, pensa un po') reso muto, sordo e cieco da un trauma infantile, che si scopre campione mondiale di flipper, guarisce e fonda una religione. Nel bel mezzo a questo delirante capolavoro, John riuscì a piazzare due canzoni sue: Cousin Kevin, la storia di un amichetto di Tommy che si diverte a bruciargli le sigarette sul braccio o a piantare chiodi nell'asse del gabinetto, e Fiddle about, dove incontriamo "Uncle Ernie" un altro sollecito amico di Tommy (nel film magistralmente interpretato da Keith Moon) che, senza tanti mezzi termini, lo violenta: "su il pigiama, giù le mutande". Niente male, considerato che siamo nel 1969. Ed è anche grazie al mite John, qui insospettabilmente sadico, che in Tommy per la prima volta l'immaginario psichedelico tutto pace e amore comincia a virare in tinte più oscure, e i santoni si rivelano pericolosi mitomani: nel finale Tommy chiede ai suoi fedeli di bendarsi, turarsi le orecchie e la bocca: tutti devono pagare per la sua infanzia difficile. Folgorante, come parabola, no? Eppure John confessava candidamente di non aver mai capito nulla della trama di Tommy, almeno fino al film, uscito cinque-sei anni dopo: come tutti noi, del resto.
Questo è più o meno tutto quello che ricordo su John Entwhistle. Confesso apertamente di avergli sempre preferito Pete: da ragazzino suonavo la chitarra senza saperne molto, abusavo del pedale, sbatacchiavo la stratocaster finta e facevo molta scena, poi scrivevo pezzi introversi e sperimentali. Ma avrei voluto avere John al mio fianco e gli avrei volentieri lasciato lo spazio di un assolo, come in My generation. Che non è la nostra generazione: è la sua. E che lentamente ci sta lasciando: dopo una prima ondata di morti violente, tra Settanta e Ottanta, ora è il tempo più triste delle morti standard, per infarti o per tumori, come l'anno scorso George Harrison. La cosa, a pensarci, è spaventosa, vista la quantità di coccodrilli che ci aspetta: ma soprattutto, si tratta della generazione dei nostri genitori. Hope I die before I get old, cantava Roger. E intanto Keith mitragliava il suo rullante a centocinquanta all'ora, Pete brandiva la chitarra contro il Marshall, e John, un po' in disparte, osservava con sospetto. Addio.
Chi di voi si è fatto un minimo di cultura musicale sui dischi del padre rocchettaro (o viceversa chi come me in casa non aveva altro che una vecchia cassettina di De Andrè e Lauzi e la cultura se l'è fatta a base di incursioni nello scaffale dei nice price), conoscerà senz'altro My generation degli Who, una canzone che per una volta non parla della sua generazione, ma al massimo di quella dei genitori. Oltre a essere uno standard del rock, la canzone si fa notare per due curiose innovazioni:
1. Per la prima volta (ad anni luce da qualsiasi progenitore del rap) un cantante balbettava ostentatamente: talkin' 'bout my g-g-g-g-eneration.
2. L'assolo, pregevolissimo, non era del chitarrista, Pete Townshend, che in seguito si sarebbe rivelato uno dei grandi compositori del rock, ma che a quei tempi per sua stessa ammissione era poco più di una pippa. No: l'assolo lo suonava il bassista, John Entwhistle. Tirate fuori il vecchio disco logoro, spolverate il piatto e riattacatelo alle casse, e suonatelo a massimo volume: varrà la pena per una volta di disturbare il vicino, perché John Entwhistle è morto, il 27 giugno. Aveva 57 anni.
Gli Who non hanno avuto la fortuna proverbiale dei Beatles e dei Rolling Stones, anche se tra '64 e '74 non furono meno innovativi (oltre a essere molto più convincenti dal vivo). Se gli Stones furono il primo gruppo manifestamente 'sessuale', gli Who furono, da subito, il gruppo 'violento': tuttavia non hanno avuto dei veri e propri eredi: i mods (corteggiati dagli who nei primi anni) presero strade più poppeggianti, i filoni hard rock e heavy metal sono scaturiti da altre sorgenti e il "caso Who" è rimasto un capitolo isolato, benché fulgido, della storia del Rock. La stagione della violenza iniziò proprio con My generation: nel finale Townshend, saturo di invidia per la maggior abilità del collega, apre al massimo il suo Marshall e, letteralmente, esplode, mentre Keith Moon alla batteria lo asseconda con raffiche di rullante. Nelle interviste, Pete si scherniva così: "la gente mi crede un grande chitarrista, ma in realtà io do solo il massimo al volume e suono un mi distorto, e tutti dicono: Wow!" A questo punto, di solito, prendeva la chitarra per il manico e la sbatteva contro l'amplificatore, fracassando uno dei due o magari entrambi, la cosa non era programmata. Lo aveva fatto una volta per sbaglio in un locale col soffitto basso: era talmente piaciuto che da allora dovette ripeterlo a ogni concerto, e anche in tv. Incoraggiati dal successo, Pete e gli altri iniziarono a distruggere anche le camere d'albergo, con qualche ripercussione sul budget, visto che dopo qualche anno di concerti in USA e nel Regno erano più indebitati di prima.
In questa allegra compagnia, John era l'elemento più in ombra, come spesso accade al bassista. Gli Who, in teoria, erano un gruppo sbilanciato sul lato ritmico (essendo lo stesso Pete nient'altro che una valida rhythm guitar). In teoria, perché Keith Moon era un pazzo, e se gli andava era capace di suonare scariche per tutta la canzone. Schiacciato tra un matto con le bacchette, un chitarrista-pippa con la mania di distruggere strumenti, e il classico cantante biondone, c'è da chiedersi come sia riuscito a sopravvivere, il mite John. Nella foto sul retro di Who's next (1971), seduto in disparte, emerge con la testa da quello che sembra il ripostiglio di un teatro parrocchiale, con sedie di plastica accatastate. Dal fondo osserva i tre folli al tavolo con sospetto: sotto i due baffi a manubrio sembra Ringo Starr. Benché fosse un virtuoso dello strumento (e in My generation lo dimostra), John era anche il più disciplinato del gruppo, anzi, era l'unico, e probabilmente dobbiamo alla sua tranquillità se il sodalizio degli Who è durato tanto passando tra le derive religiose di Townshend, i problemi di droga, e la morte di Moon nei primi anni Ottanta.
Perché, oltre a distruggere camere d'albergo e strumenti, gli Who erano noti anche per un'altra peculiarità: litigavano continuamente. Anche questa era una novità: Lennon e McCartney, per esempio, non litigavano mai: semplicemente a un certo punto smisero di rivolgersi la parola. Gli Who invece litigavano per i classici motivi per cui litigano i membri di un complesso: tira giù la chitarra, non sento la voce, no, tira su tu la voce piuttosto. Una volta, esasperato dalle continue richieste di abbassare e rialzare, il povero John mandò tutti a fuck out, fece per scendere dal palco e… fece un volo di tre-quattro metri. Anche quando Pete scoprì di essere un produttore lambiccato, di quelli che piazzano i quartetti d'archi e inventano complicate suites quadrofoniche, i litigi continuarono, e Roger telefonava a Pete per dirgli: "sei un produttore del cazzo, in Quadrophenia non riesco a sentire la mia voce". "Ma vaffanculo, Roger, forse dovresti far riparare il tuo hi-fi". Bisogna dire che quando si ha la voce di Roger Daltrey c'è poco da coprire: andate a sentire Love reign o'er me.
Come altri musicisti tranquilli e disciplinati, John, in realtà, era anche un discreto compositore, se solo qualcuno glielo avesse chiesto. Da questo punto di vista fu più fortunato di Bill Wyman, il suo collega bassista degli Stones, che per incidere una canzone scritta da lui dovette aspettare che Jagger e Richard fossero in galera per atti osceni. "Cazzo, Bill, e adesso cosa facciamo? C'è lo studio prenotato per domani!" "Ahem… beh, io avrei scritto un pezzo"). John invece riuscì sempre a proporre qualcosa di suo, anche quando Pete trascinò il gruppo in opere rock dalla trama a dir poco astrusa. Tommy (1969), per chi non lo sa, è la storia di un ragazzo figlio di un aviatore morto in guerra (come il protagonista di The Wall, pensa un po') reso muto, sordo e cieco da un trauma infantile, che si scopre campione mondiale di flipper, guarisce e fonda una religione. Nel bel mezzo a questo delirante capolavoro, John riuscì a piazzare due canzoni sue: Cousin Kevin, la storia di un amichetto di Tommy che si diverte a bruciargli le sigarette sul braccio o a piantare chiodi nell'asse del gabinetto, e Fiddle about, dove incontriamo "Uncle Ernie" un altro sollecito amico di Tommy (nel film magistralmente interpretato da Keith Moon) che, senza tanti mezzi termini, lo violenta: "su il pigiama, giù le mutande". Niente male, considerato che siamo nel 1969. Ed è anche grazie al mite John, qui insospettabilmente sadico, che in Tommy per la prima volta l'immaginario psichedelico tutto pace e amore comincia a virare in tinte più oscure, e i santoni si rivelano pericolosi mitomani: nel finale Tommy chiede ai suoi fedeli di bendarsi, turarsi le orecchie e la bocca: tutti devono pagare per la sua infanzia difficile. Folgorante, come parabola, no? Eppure John confessava candidamente di non aver mai capito nulla della trama di Tommy, almeno fino al film, uscito cinque-sei anni dopo: come tutti noi, del resto.
Questo è più o meno tutto quello che ricordo su John Entwhistle. Confesso apertamente di avergli sempre preferito Pete: da ragazzino suonavo la chitarra senza saperne molto, abusavo del pedale, sbatacchiavo la stratocaster finta e facevo molta scena, poi scrivevo pezzi introversi e sperimentali. Ma avrei voluto avere John al mio fianco e gli avrei volentieri lasciato lo spazio di un assolo, come in My generation. Che non è la nostra generazione: è la sua. E che lentamente ci sta lasciando: dopo una prima ondata di morti violente, tra Settanta e Ottanta, ora è il tempo più triste delle morti standard, per infarti o per tumori, come l'anno scorso George Harrison. La cosa, a pensarci, è spaventosa, vista la quantità di coccodrilli che ci aspetta: ma soprattutto, si tratta della generazione dei nostri genitori. Hope I die before I get old, cantava Roger. E intanto Keith mitragliava il suo rullante a centocinquanta all'ora, Pete brandiva la chitarra contro il Marshall, e John, un po' in disparte, osservava con sospetto. Addio.
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