Talking with the taxman about poetry
Mentre il sole è già scomparso da tempo, un po' nascosto tra le nuvole che rapidamente hanno inghiottito il cielo dal fondo della pineta, un pò sfocato dall’ombra della luna imminente, sul piatto gira una canzone e tutti stiamo ballando nel piccolo spazio di cemento che separa la casa gialla dalla sabbia della spiaggia, a fianco del campo da basket.
È I heard it through the grapevine, vecchio classico di Marvin Gaye che ricordo forse aver ascoltato per la prima volta dentro quel film di Kasdan, Il Grande Freddo credo si chiamasse, quello in cui all’ultimo momento la produzione decise di tagliare il personaggio del morto interpretato da uno sconosciuto Kevin Costner, mostrandone solo i piedi nudi ad inizio pellicola. Inevitabilmente questo momento mi riporta indietro ad una serata di non più di due settimane fa, un sabato come oggi.
Allora come ora sto ballando la stessa canzone, di traverso e di parecchio sopra le righe. La versione di quel pezzo soul era però diversa, più veloce, e la voce era quella di una ragazza. Usciva da un dodici pollici delle Slits, un tondo di vinile nero introvabile da tempo, un regalo di Sean a Daniele all’inizio dell’autunno, quella sera in cui assieme io e lui mettemmo su i dischi al Covo, suonavano i Melt Banana ed iniziava la storia di Unhip Records. Da allora quella canzone lui la suona sempre, ogni volta che capita gli venga assegnato il lavoro di disc jockey in una qualunque serata. Quando poco oltre vent’anni fa quel pezzo di plastica venne appoggiato per la prima volta sullo scaffale di un negozio di dischi Daniele era nato da pochi, pochissimi anni.
Le Slits invece io me le ricordo bene, appiccicate alla memoria da quella foto in copertina del loro unico album, stampata sopra la recensione di Popster: una foto bordata di un blu violaceo che ritraeva tre donne nude ricoperte di fango. Sembravano così strane allora, una banda di femministe politicizzate tra punk e reggae. Ma quelli erano gli anni in cui Red Ronnie era un maestro, si scrivevano fanzine su carta da pacchi e Oderso Rubini dettava i canoni del nuovo stile in viaggio sull’improbabile asse Bologna-Pordenone: Gaznevada, Hifi Bros e Confusional Quartet erano idoli, New Order e Bunnymen suonavano al palasport di Piazza Azzarita e qualcuno ancora piangeva la morte di Ian Curtis.
E comunque vent’anni dopo fa un sacco piacere essere ancora qui ad infilare vuoti di ceres dentro un cesto di plastica rosso seguendo il ritmo di certo funk nero anni settanta che mi pare aver ascoltato appena qualche giorno fa uscire dalle pagine di quel libro che mi sta facendo perdere il sonno, King Suckerman si chiama. Uno di quei libri che mentre li leggi immagini gli attori che sceglieresti per il casting della pellicola sceneggiata da quelle stesse pagine, tipo Denzel Washington per il fighissimo proprietario del Real Right Records, Marcus Clay, o Giovanni Ribisi a prestare la sua faccia all’insano killer B.R. Clagget. Salvo poi ritrovarti all’Ipercoop del Centroborgo e scoprire dal risvolto di copertina del nuovo libro del medesimo autore, che i diritti per fare di King Suckerman un film li ha già comperati qualcun’altro, un tale Spike Lee.
Ma intanto il funkadelico suono nero ha mutato il proprio ritmo nel battito secco di un rock’n’roll assai adatto all’occasione, agganciato a quella tavola da surf attacata al muro sopra il banco del bar e portata sotto il braccio da quell’orso bianco disegnato un pò dappertutto sui muri del locale. Una serata trasformata, dopo un inizio sotto traccia, Fabio ed io a sedere, appoggiati al muro giallo che rimandava sulla schiena la vibrazione dei bassi di una moderna, pessima, musica disco, otto bottigliette marroni da 33 centilitri allineate una a fianco l’altra.
Giusto una manciata di giorni prima seduto al banco dell’Hollywood Party cercavo di rispondere ad una domanda sulla possibilità di ritenersi felici, che poi è una delle questioni più difficili, seconda solo al chiedersi se si è o meno innamorati: stasera ad un certo punto, al buio alla fine della lunga pedana che porta al mare, sdraiato sulla sabbia con le persone migliori che conosca attorno, la risposta la conosco, almeno per una volta. Anche perchè in certi momenti non è che ci sia bisogno di molte cose e non è il caso di sollevare tante questioni. Come dicevano gli Husker Du la rivoluzione comincia a casa propria, di fronte allo specchio del bagno, o se vogliamo utilizzare le parole di Billy Bragg, uno che quando si parla di politica gli sono sempre brillati gli occhi: I don’t want to change the world, I’m not looking for a new England, I’m just looking for another girl.
Mentre il sole è già scomparso da tempo, un po' nascosto tra le nuvole che rapidamente hanno inghiottito il cielo dal fondo della pineta, un pò sfocato dall’ombra della luna imminente, sul piatto gira una canzone e tutti stiamo ballando nel piccolo spazio di cemento che separa la casa gialla dalla sabbia della spiaggia, a fianco del campo da basket.
È I heard it through the grapevine, vecchio classico di Marvin Gaye che ricordo forse aver ascoltato per la prima volta dentro quel film di Kasdan, Il Grande Freddo credo si chiamasse, quello in cui all’ultimo momento la produzione decise di tagliare il personaggio del morto interpretato da uno sconosciuto Kevin Costner, mostrandone solo i piedi nudi ad inizio pellicola. Inevitabilmente questo momento mi riporta indietro ad una serata di non più di due settimane fa, un sabato come oggi.
Allora come ora sto ballando la stessa canzone, di traverso e di parecchio sopra le righe. La versione di quel pezzo soul era però diversa, più veloce, e la voce era quella di una ragazza. Usciva da un dodici pollici delle Slits, un tondo di vinile nero introvabile da tempo, un regalo di Sean a Daniele all’inizio dell’autunno, quella sera in cui assieme io e lui mettemmo su i dischi al Covo, suonavano i Melt Banana ed iniziava la storia di Unhip Records. Da allora quella canzone lui la suona sempre, ogni volta che capita gli venga assegnato il lavoro di disc jockey in una qualunque serata. Quando poco oltre vent’anni fa quel pezzo di plastica venne appoggiato per la prima volta sullo scaffale di un negozio di dischi Daniele era nato da pochi, pochissimi anni.
Le Slits invece io me le ricordo bene, appiccicate alla memoria da quella foto in copertina del loro unico album, stampata sopra la recensione di Popster: una foto bordata di un blu violaceo che ritraeva tre donne nude ricoperte di fango. Sembravano così strane allora, una banda di femministe politicizzate tra punk e reggae. Ma quelli erano gli anni in cui Red Ronnie era un maestro, si scrivevano fanzine su carta da pacchi e Oderso Rubini dettava i canoni del nuovo stile in viaggio sull’improbabile asse Bologna-Pordenone: Gaznevada, Hifi Bros e Confusional Quartet erano idoli, New Order e Bunnymen suonavano al palasport di Piazza Azzarita e qualcuno ancora piangeva la morte di Ian Curtis.
E comunque vent’anni dopo fa un sacco piacere essere ancora qui ad infilare vuoti di ceres dentro un cesto di plastica rosso seguendo il ritmo di certo funk nero anni settanta che mi pare aver ascoltato appena qualche giorno fa uscire dalle pagine di quel libro che mi sta facendo perdere il sonno, King Suckerman si chiama. Uno di quei libri che mentre li leggi immagini gli attori che sceglieresti per il casting della pellicola sceneggiata da quelle stesse pagine, tipo Denzel Washington per il fighissimo proprietario del Real Right Records, Marcus Clay, o Giovanni Ribisi a prestare la sua faccia all’insano killer B.R. Clagget. Salvo poi ritrovarti all’Ipercoop del Centroborgo e scoprire dal risvolto di copertina del nuovo libro del medesimo autore, che i diritti per fare di King Suckerman un film li ha già comperati qualcun’altro, un tale Spike Lee.
Ma intanto il funkadelico suono nero ha mutato il proprio ritmo nel battito secco di un rock’n’roll assai adatto all’occasione, agganciato a quella tavola da surf attacata al muro sopra il banco del bar e portata sotto il braccio da quell’orso bianco disegnato un pò dappertutto sui muri del locale. Una serata trasformata, dopo un inizio sotto traccia, Fabio ed io a sedere, appoggiati al muro giallo che rimandava sulla schiena la vibrazione dei bassi di una moderna, pessima, musica disco, otto bottigliette marroni da 33 centilitri allineate una a fianco l’altra.
Giusto una manciata di giorni prima seduto al banco dell’Hollywood Party cercavo di rispondere ad una domanda sulla possibilità di ritenersi felici, che poi è una delle questioni più difficili, seconda solo al chiedersi se si è o meno innamorati: stasera ad un certo punto, al buio alla fine della lunga pedana che porta al mare, sdraiato sulla sabbia con le persone migliori che conosca attorno, la risposta la conosco, almeno per una volta. Anche perchè in certi momenti non è che ci sia bisogno di molte cose e non è il caso di sollevare tante questioni. Come dicevano gli Husker Du la rivoluzione comincia a casa propria, di fronte allo specchio del bagno, o se vogliamo utilizzare le parole di Billy Bragg, uno che quando si parla di politica gli sono sempre brillati gli occhi: I don’t want to change the world, I’m not looking for a new England, I’m just looking for another girl.
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