(sarà anche che mi faccio sempre influenzare dai ragazzi di Glamorama, e nel caso specifico dal sorprendente entusiasmo di Fabio Merighi giovedì scorso...)
Ma negli ultimi tre giorni, i nemmeno quarantacinque minuti di Neon Golden, ultimo album dei Notwist, li ho suonati e risuonati almeno una ventina di volte.
Ho addirittura messo sullo screen saver dell’ufficio una frase apparentemente casuale come "prepare your shoes / not to come back soon”, che apre il disco su uno sfondo d’archi epico come una colonna sonora e che ti proietta già tutto un film (senza dimenticare la frantumazione del campionamento iniziale che, tanto per rimanere nella stessa etichetta, la fidata City Slang, a me ha fatto pensare agli SchneiderTM, anche se immagino ci siano riferimenti più adeguati: sorry, è che io ascolto sempre le solite quattro cose e quindi).
Ai New Order può far pensare la pulizia della voce di Markus Archer sopra a tutti i suoni, anche i più futuribili, anche i più antichi (certe chitarre – o un banjo? - da far west su loop tutti rivoltati dentro se stessi), una voce che non si lascia quasi mai andare (che non recita) anche quando raggiunge i momenti più toccanti dei pezzi.
I dEUS all’inizio mi sono tornati in mente, forse troppo facilmente, per qualche violino che ogni tanto, tra un riff e una drum machine, salta fuori vivo e caldo. Però alla fine mi è sembrato che l’intero umore del disco dei Notwist (da cui è “doloroso” isolare una canzone alla volta) fosse in qualche modo riconducibile alle atmosfere del gruppo belga, anche se ovviamente in una maniera molto più rimanipolata, meno strettamente “rock”.
E poi c’è un pezzo come One with the freaks (scaricatela qui, ora: è un ordine!) che tutti abbiamo già ballato mille volte nella vita e ancora ci prende, e ci fa allargare le braccia e piegare sulle ginocchia e guardare la notte e la città dall’alto.
E poi c’è la title track, che è una dilatatissima ballata che si costruisce di dissonanze: all’inizio non sai come leggerla, poi si scioglie e arriva piano, e arriva amarissima (non ho controllato, ma mi sembra il pezzo più lungo dell’album, lo tiene insieme tutto).
Ma basta, non voglio più parlare a sproposito: one step inside doesn’t mean you understand…
Giovedì sera non so cosa succederà a Polaroid, ma so che come ultima canzone metteremo Consequences senza alcun dubbio: leave me paralysed, love…
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