«I wanted to write an album as a means of escape. I didn’t want to express only these feelings of frustration and exhaustion because to write only about the pain is to live inside that pain. Instead, I am attempting optimism; to write about support and friendship and endurance but mostly to imagine being released from this weight - of wiping the slate clean of learned behaviours and inherited oppression and to indulge in a moment of respite.»
So che citare ampi passi di un comunicato stampa per parlare di un disco può sembrare pigro, ma in questo caso le parole di Alice Merida Richards, voce e artefice dei Virginia Wing insieme a Sam Pillay, è racchiuso tutto lo spirito di questo nuovo album Ecstatic Arrow, l'inventario minuzioso di un dolore e la ferma serenità di una reazione consapevole. Le "frustrazioni" di cui parla la Richards sono quelle che si trova costretta a combattere ogni giorno, come donna e come donna che fa musica. L'opprimente quantità di misoginia, pregiudizi e incomprensioni che anche in campo artistico bisogna ancora sopportare. Lo descrive bene Season Reversed: "an uncanny feeling of being misted / part of the choir but only really another instrument". Una sistematica esclusione, uno sfinimento che è diventato abitudine, e che si percepisce come un peso in senso letterale, fisico. Come canta il ritornello del singolo The Second Shift, "It's written in my whole body / it's hidden in my whole body".
Ma questo non è un disco che si arrende, i Virginia Wing non sono qui per raccontare una docile rinuncia. "I'm tired but not giving in / I'm pretty tired of always listening / I am choosing to live my own life / in the way that I decide" (Eight Hours Don't Make A Day). L'elemento più forte, e che affascina sin dal primo ascolto, è che la risolutezza dentro queste canzoni si pone senza mediazione, la battaglia alle spalle, il sole in faccia.
Musicalmente Ecstatic Arrow sceglie di tradurre questa decisione e questa luminosità con una miscela di pop sofisticato e sintetico che si ispira a nomi come Laurie Anderson, David Sylvian o Yellow Magic Orchestra. Tessuti elettronici quasi trasparenti, ritmiche pulsanti che a volte si insinuano di soppiatto e a volte invece ricordano un certo funk capriccioso alla Talking Heads, improvvise accelerazioni e soprattutto certi innesti di sassofono capaci di dare calore a una scrittura, che a tratti può apparire fin troppo logica e razionale. La voce della Richards, con la sua limpida distanza, è il vero elemento che per me tiene assieme questo disco, complesso e seducente, che indovina il modo giusto per fare art-pop oggi, suonando necessario e intelligente.
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