(foto di Stromboli)
I giardinetti pubblici di Tagliata a Guastalla sono il mio personale Parc del Fòrum. Lo so, ti fa ridere paragonare l’Handmade Festival al Primavera di Barcellona, ma dopo dieci anni di presenza fissa penso di poter dire che questa è davvero la mia dimensione di evento musicale preferita.
Forse la line-up dell’Indietracks conta più gruppi "miei", forse Emmaboda una quindicina di anni fa era la cosa più vicina a un paradiso twee che abbia mai sfiorato: ma qui e ora non c'è posto dove mi piaccia di più godermi dodici ore di concerti interessanti di fila (senza perdere quasi nulla), bermi birrette sull’erba e ritrovare vecchie conoscenze.
Certo, il mio giudizio non è obiettivo: questo festival è stato inventato e organizzato da amici; per questo festival, lungo gli anni, ho messo dischi, ho scritto improbabili comunicati stampa, ho fatto special radiofonici, ho preso autovelox e ci hanno suonato un paio di gruppi dell’etichettina a cui maldestramente collaboro. In questo festival, lungo gli anni, ho visto almeno un paio dei concerti a cui tengo di più nella mia vita, qui mi sono ubriacato come uno straccio, qui mi si è spezzato il cuore, qui ho ballato senza vergogna e qui ho tenuto in braccio i miei figli. Insomma, sono parecchio coinvolto, ma nessun altro festival mi ha mai dato tanto (forse abbiamo vissuto qualcosa di simile alle prime edizioni di Musica Nelle Valli – che non a caso oggi cura una parte della line-up all’Handmade).
La battuta sul Primavera è un’ovvia esagerazione, ma ieri all’Handmade mi è venuta in mente così, mentre facevo i due passi da un palco all’altro. E camminando qui capita sempre di toccare il bicchiere con qualcuno che incontri, non ci si vede da un sacco, a che ora sei arrivato, hai visto quello, hai sentito questo, andiamo che stanno per cominciare. È tutto lì, almeno per me. E poi mi volto e c’è la Bassa a perdita d’occhio, le strade della pianura, un orizzonte che mi stringe sempre un nodo in gola, e ci sono le ragazze sedute sulle balle di fieno a ridere, i bimbi che si arrampicano sull’argine, il filare di pioppi che fa ombra al main stage, l'arcobaleno delle bancarelle e dei mercatini vintage, i profumi delle grigliate. Stare bene così, in mezzo a tutta la musica.
Potremmo anche metterci lì a dare le pagelle di questo 2017, ognuno avrà le sue. Ieri, per me, il 10 pieno lo ha sfiorato Chris Cohen (unica nota di demerito: avere lasciato fuori dalla scaletta Optimist High), con un set di un’eleganza superiore, colmo di gesti misurati e anche di silenzi (credo sia la prima volta che sento un chitarrista dire al fonico “aspetta che abbasso l’ampli” dopo un paio di canzoni). Ma d'altra parte, voti altissimi anche al rock’n’roll a volume altissimo: Mystery Lights, Triptides, e pure i nostri Flyin’ Zebra, hanno mostrato come incendiare le sei corde e hanno saputo farci agitare, chi più psichedelico, chi più surf, chi più garage Sixties. I Califone, nonostante la tarda ora e qualche inciampo tecnico che rischiava di guastare l'atmosfera, hanno ricordato perché sono delle leggende viventi che seguiamo ancora dopo due decenni. Conferma totale e prevedibile per i Metro Crowd, con quel loro nervosissimo post-punk che forse funziona meglio di notte in qualche posto losco, ma che anche ieri ci ha trasportato dentro un filmato di repertorio dei Gaznevada nel ’77. Tra gli altri italiani, mi piace segnalare la poesia (davvero "fatta a mano" come questo festival) di Setti, questa volta accompagnato dalla sparring partner Avocadoz, con tanto di scenette alla Sandra e Raimondo. Voti belli alti anche alla voce Elettronica, con l'ambient aliena di Stromboli (set breve ma tutto in crescendo) e con la rivelazione del canadese Scott Hardware, perfetto per un tramonto italian house, Ibiza lungo le rive del Po. Infine, voto buono ma "potevano impegnarsi di più" ai miei cari Sea Pinks, suono jangling ineccepibile, Smiths e Housemartins sempre nel cuore, ma hanno dato l'impressione di essere abbastanza stanchi alla fine del tour, e il loro indiepop non ha portato tutti i colori che speravo alla festa di Guastalla.
Ogni anno la stessa vaga preoccupazione: l’Handmade diventerà troppo grande? Questa volta arriverà troppa gente e non si riuscirà più a girare? Quanto potrà durare la bazza dell'up-to-you?
Non importa. Se l'Handmade crescerà, come forse è logico che sia, credo che questi suoi primi dieci anni - un periodo già lunghissimo, per questa epoca di musica solubile e istantanea - abbiano significato già così tanto, e per così tanta gente, che tutto quello che porterà il futuro sarà comunque un regalo. Un festival che riesce a essere a misura d'uomo e ricercato al tempo stesso, sperimentale e rilassato, e che soprattutto non ha mai perso la sua spontaneità e autenticità "handmade".
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