Quando cominci ad ascoltare per la prima volta Stranger, l'album di debutto dei Grandstands, pensi subito a certi Real Estate, a quel passo rilassato, crepuscolare e suburbano. Poi, a mano a mano che ti inoltri tra le canzoni del quartetto di Melbourne, ti accorgi che c'è anche altro: una nota più amara, ma non disperata; una sfumatura più slacker e perdente che fa prendere loro una specie di distanza. Avverti un certo disincanto, ma senza sarcasmo e nemmeno troppa malinconia. Una musica che ti dice di avere capito che sei così, poteva andare meglio, ma tutto sommato pure molto peggio. E allora, di che ti preoccupi? Nel comunicato di presentazione di Stranger mi piacciono due frasi in particolare. Una sulla lavorazione del disco: "The songs were coaxed out, slowly, steadily, surely—both delayed and inspired by the daily routines of the band". Me li immagino i ragazzi al pub dire "cavolo, guarda, i Twerps hanno fatto un altro disco e noi ancora un cazzo, ed è passato un'altra estate". Poi c'è questa descrizione del loro sound: "the album is rooted in everyday reality, familiar as the old couch on the front porch". E me li vedo proprio, stravaccati sul vecchio couch, alla settima o undicesima birra, concludere che "vabbè, però sai cosa, non si sta poi così male qua".
Stranger (In A Sense)
All My Life
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