"...and everything was stardust..."

Ecco cosa ho fatto in questi giorni.
Ho ascoltato in continuazione Stardust degli Irene.
Gli Irene sono una band di Göteborg, si definiscono una "big beer-drinking mass of 30-somethings" e hanno appena pubblicato il loro primo singolo per la Labrador. Sono in otto/nove e sembrano devoti a una specie di suono Motown-for-dummies (che-fanno-il-surf), arrivando a sfumature che ti fanno domandare come sarebbero stati gli Smiths con un po' più di fiati. Sopra a ogni cosa, una voce profonda, quasi da crooner, che magari a qualcuno potrà risultare anche poco simpatica, ma che va benissimo al ballo di fine anno. Sul loro MySpace potete ascoltare/scaricare un po' di canzoni.

Ma tutto questo non m'importa più.
Perché c'è Stardust. Ormai hanno fatto quella, e mi basta.
Un minuto e quattordici secondi di battimani, ottoni che vi trascinano nel coro, la-la-la-la, tambourines e l'inesplicabile malinconia di un giro di do. Tutto è così inconsistente, e lo stesso ti ci aggrappi. Tutto passa veloce come l'estate.
E quelle due strofe da manuale, una storia d'amore che non dura un fine settimana, e ogni cosa si sbriciola e luccica, polvere di stelle e baci di pomeriggio.
Stardust è perfetta nel suo semplice risuonare deja-vù di storia della musica o di certi remoti giorni della vostra vita. O di questi.

(In fondo al blog degli Irene trovate anche una versione demo della stessa canzone. Al confronto con l'altra fa un po' sorridere come vedere ballare i propri genitori.)


update: qui il delirio capitato in radio quando li abbiamo scoperti.

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