"Before Spotify solved the problem with music forever"

Streaming Music Has Left Me Adrift - The New York Times

«It’s hard to imagine now, but there once was a time when you could not play any song ever recorded, instantly, from your phone. I call this period adolescence. It lasted approximately 30 years, and it was galvanized by conflict.
At that time, music had to be melted onto plastic discs and shipped across the country in trucks. In order to keep this system running smoothly, a handful of major labels coordinated with broadcasters and retailers to encourage everyone to like the same thing, e.g. Third Eye Blind. This approach divided music into two broad categories: “popular” and what I liked.
[...]
The digital age has given everyone in America a better music collection than the one I put together over the last 20 years, and in so doing it has leveled us. James Murphy describes this problem in the LCD Soundsystem song “Losing My Edge”».
"Streaming Music Has Left Me Adrift" è un pezzo tutto sommato divertente di Dan Brooks sul New York Times. Forse non aggiunge nulla di nuovo al tema, ma sintetizza bene un certo disagio generazionale (un classico caso di "first world problem", me ne rendo conto) nel dover accettare che "my record collection is no longer a lifestyle, a biography, a status". Il mondo sembra fare di tutto per dirci che quelle pareti di dischi che abbiamo eretto in casa non contano più niente. Puoi reagire abbracciando la contemporaneità (cosa che l'articolo di Brooks contempla, seppure con poca convinzione), oppure scoprire se la tua identità, il tuo carattere, il tuo gusto sono abbastanza forti lo stesso, e trovano nuove maniere per raccontarsi e confrontarsi (argomento che il pezzo tutto sommato trascura). Insomma, si può vivere benissimo senza Spotify e tutto il resto in streaming, ma se questo si riduce unicamente al sostenere con spocchia "io vivo senza Spotify" suona un po' come il vecchio "io non ho neanche il televisore in casa". L'universale accessibilità immediata mi preoccupa/incuriosisce più per l'aspetto dell'immediatezza che per quello dell'accessibilità. Mi torna in mente il "We used to wait" che cantavano gli Arcade Fire. Ma non per la nostalgia ormai stereotipata che racconta il pezzo del New York Times, piuttosto perché è in quel "wait", nel saper lasciare sedimentare le cose, nel consentire di mettere radici, farle intrecciare, che io vedo la partita ancora aperta.

Commenti

Divudì ha detto…
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ermatriciana ha detto…
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