Il ritorno degli Slowdive: riunione di famiglia

Slowdive live at Radar Festival - Padova, 2014/06/16

Una settimana fa ero al concerto degli Slowdive al Radar Festival di Padova. Il loro primo concerto in Italia, a vent'anni dallo scioglimento. La location forse non era delle più suggestive (la serata era ospitata dalla festa di Radio Sherwood, nel parcheggio dello Stadio Euganeo), e a dire il vero mi aspettavo un'affluenza di pubblico ben maggiore.
Ma il clima era così sereno e disteso, e intorno a me ho visto così tante facce conosciute, salutato così tanti amici e incontrato persone che non vedevo da così tanto tempo, che alla fine la sensazione non era più quella di un concerto, o di un evento che, pur nella sua scala ridotta di "nicchia per personaggi di Alta Fedeltà", si poteva definire "storico".
No: è stata una vera e propria riunione di famiglia. Una di quelle che non succedono mai per davvero, in cui tutto va per il verso giusto e provi solo affetto per tutti e tutto quanto. Mentre eravamo lì a farci travolgere da quel suono (praticamente impeccabile: forse, a tratti, alcuni accidentali squilibri sulle voci), avevo la più totale sensazione di trovarmi in quel posto e in quel momento soltanto per la musica, per un'idea di musica. Quella degli Slowdive sembra essere una reunion senza nessuna nostalgia, senza nessuna stridente contraddizione, senza rimandi a chissà quale giovinezza che non avevamo nemmeno vent'anni fa. Non ho mai idolatrato Rachel Goswell o Neil Halstead, per esempio, come possibili personaggi carismatici. Ma eravamo lì, tutti assieme, loro con noi, e durante il concerto di Padova quello che tornava a vivere era soltanto l'opera degli Slowdive, il capitolo (grande o piccolo, come preferite) che porta il loro nome nella Storia della Musica. Tutti, figli, eredi, lontani parenti e discepoli, eravamo lì per un piacere prezioso che è raro provare.

E se in parte di una riunione di famiglia si è trattato, ho voluto invitare un po' di amici a scrivere due righe a proposito di questo concerto qui sul blog: qualcuno era già in giro quando uscivano i dischi degli Slowdive, qualcuno non era ancora nato quando si sono sciolti, ma tutti quella sera erano lì per quella incredibile musica.

- Jukka Reverberi (Giardini di Mirò / Crimea X / Spartiti)
il mio sabato pomeriggio negli anni 90 si chiamava "argh!". lo ricordo ancora come il miglior negozio di dischi del mondo. treno da Cavriago a Reggio. treno da Reggio a Modena. poi a piedi dalla stazione di modena fino a zona Pomposa dove si trovavano queste due stanzette gestite da punk per i punk. ma sui dischi il punk non era una dieta, c'era parecchio di più ed è anche quel luogo che mi sono formato musicalmente, incontrando amicizie importanti.
in un pomeriggio come tanti, durante l'esplorazione degli scaffali porta cd, Enrico mi disse "dai, lo faccio mettere su" mostrandomi Souvlaki. lo avevamo visto mille volte, ci chiamava, ma poi eravamo sempre passati oltre.
Su Alison ci ritrovammo uno di fronte all'altro, increduli per quell'abisso sonoro, a gestire le vertigini dell'ascolto.
ovviamente all'argh! disponevano di una sola copia del cd, che Enrico si portò a casa. poi io ho fatto i compiti, dato che su Top Ten (catalogo via posta di offerte musicali con sede a Salsomaggiore Terme, un'altra roba scomparsa con gli anni 90 e internet) in quel periodo i dischi degli slowdive si portavano a casa per una cantata.
ieri, a Padova, a un certo punto sono partite le note di Alison e per tre minuti abbondanti ero di nuovo nella seconda saletta dell'argh! con il mio amico, felici per la scoperta di un mondo sonoro nuovo che ci avrebbe accompagnato nel futuro.

- Daniele Carretti (Offlaga Disco Pax / Magpie / Felpa)
Credevo di arrivare emotivamente preparato, più o meno, avendo già avuto la botta grossa al Primavera a fine Maggio, ma alla fine non si è mai abbastanza preparati. Alle cose belle, come alle cose brutte, non c’è preparazione che tenga, la botta arriva sempre e talmente potente che non ci lascia scampo.
A mente lucida, il giorno dopo, l’unico aggettivo che mi viene in mente e che riassume il concerto degli Slowdive di Padova, ma allo stesso tempo riassume pure quello di Barcellona e riassumerà tutti quelli futuri che spero di poter vedere e sentire, è “perfezione”.
Non ci sono altre parole che possano descrivere quel momento in cui ti ritrovi prima a non capire nulla travolto da quello che per anni e anni hai potuto ascoltare solamente in cd e vinili rimanendone esterrefatto e che ora è lì, reale, dal vivo, davanti a te, con tutta la potenza del passato e dei ricordi che riaffiorano senza lasciarti scampo e poi ritrovarsi a piangere per quanto tutto sia perfetto e talmente emozionante da togliere il fiato.
Sicuramente per me la parte emotiva in questa situazione ha giocato il ruolo principale, ma per tutto il resto, per come intendo io la musica legata al suono, alle canzoni e all’emotività che trasmettono, oggi, ma neanche ieri, in giro non c’è nessuno che suoni come gli Slowdive.

- Margherita Ferrari (Soft Revolution / L'odore dei pomeriggi quando li butti via)
Il biglietto per il concerto degli Slowdive l'avevo comprato il giorno d'apertura della prevendita, quasi senza rendermene conto. Un gesto automatico. Poi sono passati i mesi e, poco per volta, ho realizzato le implicazioni di quella transazione economica: le mie tenere orecchie a pochi passi dagli amplificatori di Rachel Goswell e soci.
Qualche giorno fa sono stata assalita dal terrore che la band di Reading, dal vivo, potesse indurmi crisi esistenziali assimilabili a quelle causatemi dai My Bloody Valentine, che vidi alla Route du Rock nel 2009 e che ora occupano l'apice della mia personale classifica delle delusioni concertistiche. Sarà che non capita spesso di trovarsi al cospetto delle persone che hanno definito lo standard della pregevolezza shoegaze... io mi sono preparata abbandonando ogni aspettativa fuori dai cancelli di Sherwood.
La mossa si è rivelata vincente. Tra una birretta e l'altra, amiche ritrovate nel pubblico e momenti di grande intendimento femminista, mi sono effettivamente ritrovata a pochi passi dagli amplificatori di Rachel Goswell e soci. Sul momento ho pensato all'aggettivo "magnifico", che è forse quello che associo di più alla mancanza di parole e allo stordimento piacevole. Ora che ci ripenso, mi vengono in mente gli occhi luccicanti e quasi increduli dell'amica Adele, le danze quiete dell'amica Francia, il mio magone pressoché costante da inizio a fine concerto e, nel complesso, quel senso di quiete e quelle immagini di approdi felici che associo ai concerti più belli cui abbia partecipato.

- Anna Laura Cazzola (Frigopop / Roar Magazine)
Come se tutte le emozioni vorticassero nei riff delle tre chitarre, o nei tuoi occhi. Seguire le note arrampicarsi sul pentagramma, scavalcare il muro del suono ovattato delle cuffie, trasparente nelle tue orecchie. Nel sospirare di Rachel Goswell sgarbugliando il filo del microfono, un filo di vento muovere la calura di Luglio sulle braccia sgomitare, sudarsi un'altra canzone. Sotto il palco affollato del rumore dei passi, dei piedi alzare la polvere in una nuvola di fumo sporcare con il distorsore, stropicciare le ciglia con un pugno in un occhio: sto sognando? Intorpidita dal freddo del lenzuolo lasciarmi scoperte le gambe su cui non mi reggo più, e non è la stanchezza.

- Chris Angiolini (Bronson Produzioni / Hana-bi)
L’altra sera Enzo mi ha intravisto tra il pubblico e così ha pensato bene di tirarmi dentro questo report collettivo della prima volta degli Slowdive in Italia. Forse io dovrei essere la voce fuori dal coro, tanto che sono partito dall’Hana bi mentre nella testa risuonava ancora quel tormentone iniziato sotto la tettoia una notte al Ceremony Festival che faceva esattamente così: “ …ma chi sono gli Slowdive, ma chissono gli Slowdive …”, rischiando ovviamente l’incidente diplomatico. All’inizio degli anni ’90 i miei ascolti viaggiavano sull’asse Seattle New York Washington DC, avevo fatto una scelta di campo precisa. Solo succcessivamente mi sono imbattuto nei Mojave 3 e ancor più recentemente nella carriera solista di quel barbuto surfista d’albione che mi ha conquistato con le sue melodie. Ovviamente stiamo parlando di Neil Halstead. Sono arrivato a Padova senza possedere nemmeno un disco degli Slowdive, per una volta volevo ascoltare qualcosa di nuovo. Non ero nemmeno mai stato a Sherwood, piacevolissima sorpresa, ottima la pizza. Mi affretto verso il palco sulle prime note della cerimonia e mi avvicino progressivamente al palco per entrare in quella bolla fuori dal temp(i)o, circondato dai devoti. È stato emozionante scoprire così tante canzoni nuove, bellissime, una alla volta, senza fretta appoggiato su quelle melodie dilatate, riposizionando alcune tessere nel mosaico degli ascolti di una vita. Stavano sul palco con la consapevolezza dei giusti mentre là fuori i suoni erano stratificati e avvolgenti. Un brano alla volta e mi immergevo lentamente in quel sogno (per tutti gli altri divenuto realtà) fatto di feedback zucchero e malinconia, al punto che ho deciso di stendermi sulla collinetta e addormentarmi e continuare a sognare: di volare con un aeroplano sopra il mare. Avevo i capelli d’oro.

- Simone Grossi (101ism)
Il fatto è che arrivi ad una certa età e diventa inevitabile fare un po’ il punto della situazione, chiederti dove sei, cosa ti sei portato dietro e cosa ti sei lasciato alle spalle. Se ne è valsa la pena. Non è una questione di rimpianti o di retromanie, anzi, tutto il contrario.
È guardarsi indietro per capire meglio cosa sei diventato, mettere a fuoco il presente, per raddrizzare il tiro, magari. Sei stato coerente con te stesso, con la tua storia, oppure hai derogato a troppi compromessi, alla comodità di non prendere posizioni e decisioni?
Delay e riverberi si inseguono, spandendosi e dilatandosi in onde concentriche, la sua voce un sussurro appena udibile. Hai i brividi. Osservi per un attimo la tua mano che stringe il cellulare: sta tremando. Ripensi a una giornata di una decina di anni prima, al fianco della stessa persona che è al tuo fianco adesso, quando sul palco di Saint-Malo c’erano quasi le stesse persone, ma con un nome diverso. Il pubblico, a malapena una trentina di coraggiosi, in un pomeriggio piovoso, e tu impegnato in una preghiera silenziosa: “vi prego, vi prego, almeno Dagger, qualsiasi cosa ma datemi un frammento di Slowdive”.
Ma erano i Mojave 3 e coerentemente fecero solo pezzi dei Mojave 3. Guardi Rachel Goswell che sorride scuotendo leggermente la testa, e ti chiedi se anche lei stia pensando alla stessa cosa, ai vent’anni passati, alle trenta persone annoiate ad un concerto tra tanti, e nessuno che allora le urlasse “Rachel, I love you!”, nessuno che le lanciasse rose sul palco.
Chiudi gli occhi, i brividi continuano e ti passi le mani sulle tempie, perché tutto questo richiede raccoglimento. Quando parte She Calls il concerto si trasforma in una sorta di epifania, che definisce il senso di un lungo viaggio in macchina, permessi al lavoro, una presentazione saltata e babysitting coatto, il senso di ritrovare persone che non vedevi da anni, e che, tutto sommato, speravi di rivedere, o anche solo di riconoscere senza dover necessariamente fermarle o parlarci. Tutto quello che determina, forma e sostanza, la nostra storia. Che ne è valsa la pena.

Slowdive, you can’t touch me now.

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