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Dry Cleaning - Stumpwork

Come sopravvivere alla risacca dell’hype che dura una stagione e rischia di spazzarti via al prossimo aggiornamento delle playlist di regime? Stumpwork, al netto della copertina forse più ripugnante del 2022, offre qualche risposta interessante. 
Se i primi EP e soprattutto il debutto dei Dry Cleaning, quel New Long Leg uscito appena l’anno scorso, li avevano quasi all’istante segnalati come una delle band più distintive ed eccitanti di questi ultimi anni, era inevitabile aspettarli al varco, facendo salire parecchio le aspettative per il nuovo album. Album che ho da qualche settimane in heavy rotation tra cuffie e giradischi e che ripaga ogni attesa, trovando nuovi modi di sorprendere l’ascoltatore e confermando al tempo stesso il valore del quartetto londinese.
Per quanto la caratteristica principale e più evidente della musica dei Dry Cleaning resti il recitato impassibile, algidamente elegante, a volte austero e a volte imprevedibilmente sensuale di Florence Shaw, cambia però in maniera decisa il veicolo di questa voce. Dove in New Long Leg il tono era aspro e post-punk, in Stumpwork l’umore si sposta verso un ovattato territorio tra slow-core e post-rock, tra sommesse divagazioni slacker, verso chitarre che mi hanno ricordato certi Smiths più dolenti o, addirittura, verso un delicato jangling pop (vedi Kwenchy Cups, quasi REM, o quegli accenni di insolite melodie in Gary Ashby o nella title track). 
Stumpwork si presenta come un lavoro meno ansioso e irrequieto, meno giocato sui contrasti, in cui si apprezza una volta di più il puntuale lavoro di produzione di John Parish, con un maggiore utilizzo delle tastiere, innesti di sax e piano elettrico, e ritmi più languidi. Eppure, la forza con cui i Dry Cleaning colpiscono non appare per nulla diminuita. E qui arriviamo all’altra grande qualità della band londinese: la scrittura, la pura e semplice capacità di dare luce alle parole e ai pensieri partendo da elementi disparati e imprevedibili, a volte anche comici o sentimentali.
Potremmo fare a gara a chi sceglie la strofa preferita più assurda, spiazzante o rivelatrice, a chi cita il nonsense più divertente. Ognuno vincerebbe, perché non c’è davvero nulla fuori posto in queste canzoni e in questi racconti. Ma come ha sintetizzato acutamente Kieran Press-Reynolds (figlio del celebre Simon) su Pitchfork, la vera forza della Shaw sta “nel modo in cui i suoi versi migliori riescono a cogliere verità eterne attraverso i piccoli modi con cui gli esseri umani sopravvivono alla distopia quotidiana: per esempio, come l'arrivo di una scarpiera per posta possa distrarti dalle disfunzioni del decadimento tardo capitalista in cui siamo immersi”. O anche, aggiungo io, come l’arrivo di un nuovo, beffardo e implacabile album dei Dry Cleaning possa dopotutto risollevarti il morale.


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