Humans were built for daydreams

Free Time - Jangle Jargon

Se potessi attraversare, guidando senza fretta, questa piccola regione della musica che amo, vorrei impostare sul navigatore le coordinate per un disco che si trova più o meno all’incrocio fra Twerps, Real Estate e Scott & Charlene’s Wedding. Prenderei il giro lungo, lascerei la strada panoramica che scende dalla Flying Nun, si inoltra nel quartiere australiano di Sandalgaze e sbuca più o meno tra Woodsist e Underwater Peoples. Arriverei in tempo per l’ora del tè e mi ritroverei proprio dalle parti di Jangle Jargon, il nuovo album dei Free Time: un quartiere accogliente, con le sue bellezze da scoprire, una di quelle zone che magari non attirano l’attenzione ma in cui ci si trova proprio bene. Potrei fermarmi qui per un sacco di tempo. 
Dion Nania era arrivato da Melbourne (lasciando tra l’altro la sua precedente formazione dei Panel Judge) per insegnare teoria politica a New York. Il suo principale interesse sono i movimenti sociali che nascono all’interno delle rivolte carcerarie. Poi approdato a Brooklyn si è trovato a suonare con musicisti del giro dei Woods, amici di amici, e poi, prendendosi tutto il tempo che occorreva (sei anni, per la precisione – pausa Covid compresa) ha dato un seguito all’ottimo In Search Of Free Time. Quando Nania scrive canzoni riesce a mettere in musica idee come l’onnipresenza del realismo capitalista, l’influenza delle gerarchie feudali sul nostro sistema di oppressione attuale, istantanee di piccoli paesaggi da cartolina descritti con delicatezza e disincanto, e riflessioni linguistiche sulla nostra maniera di parlare dell’indiepop stesso. Come dicevo, io mi trovo molto bene in questo quartiere. È lo spirito che lo anima a conquistarmi, qualcosa che ti fa sentire a tuo agio in una periferia – per proseguire la metafora – che non ha bisogno di nessun centro. 
C’è una specie di filo conduttore slacker e senza ansia lungo queste dieci canzoni, anche tra le più nervose come Never Your Turn oppure That’s Rare, che mi trasmette serenità. Ehi, ora che ci penso, tra queste chitarre sulla terrazza al tramonto (la magnifica The Terrace), tra questi arrangiamenti di pianoforti leggeri (Long Centuries) o di delicati fiati sintetici (Beak In A Cup), dove trovano spazio anche un angoletto di quasi bossanova slegata (Disciplines And Mastery) o una cover dei Green On Red (la conclusiva Lost World) io posso dire di sentirmi proprio a casa. 



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