Oh yes, you're in charge of what you feel

Superorganism

La più smagliante idea del futuro che avevo una sera qualunque dell'autunno del 1998 stava, con tutta probabilità, dentro un modem 56k che poteva aprire la home-page di Altavista in meno di mezzo minuto. Era una confusa immagine fatta di dj depositari di incredibili saggezze, frenetici spot con il logo di MTV a cartoni animati, stilisti che copiavano i tuoi gruppi preferiti, blando cinismo ancora vagamente redditizio, telefoni cellulari che si ripiegavano e diventavano addirittura più piccoli di un pacchetto di sigarette. Era un futuro imprevedibile di cui non avevamo timore. Le autostrade informatiche si stendevano davanti a noi, ancora promettenti. Stelle cadenti nel logo di Netscape: solo desideri da esprimere, e non ancora meteoriti che colpivano la Terra.
Una sera qualunque dell'autunno del 1998 guidai per un paio d'ore una Y10 4WD (la cassetta di Hello Nasty continuava a girare nell'autoreverse) e arrivai al Vidia di Cesena per vedere i Bran Van 3000 in concerto. L'eco dell'estate di Drinking In L.A. era ancora forte, e potevi avere la certezza che ancora innumerevoli estati, altrettanto formidabili, ci attendevano. Quella notte, quel bizzarro collettivo sul palco fece davvero di tutto per farci credere che sarebbe stato così. Combinavano senza sosta la sovrabbondanza dell'hip-hop, un po' di caleidoscopi elettronici a buon mercato, qualche chitarra aggressiva, fondi di magazzino di jazz e r'n'b sintetico da fast food. Fu un miscuglio sgargiante che riverberò allegro appena un attimo, senza sapere che sarebbe stato presto travolto dalla fin de siècle indifferente.
Vent'anni dopo, a tutti gli effetti una generazione, ritrovo quello stesso gusto per il pastiche pop e ottimista - oggi ovviamente amplificato e appesantito da due decenni di internet, meme, retromania e "realismo capitalista" - in un nuovo collettivo, stavolta più cosmopolita, che fa base a Londra e ha come voce una ragazzina giapponese di 17 anni che vive(va) nel Maine. L'hype cresciuto mese dopo mese intorno ai Superorganism è finalmente culminato nell'album d'esordio chiamato come loro, e che si è rivelato, possiamo dirlo con un sorriso, all'altezza di tutte le aspettative. Per quanto mi riguarda, non posso che ripetere quello che avevo detto la prima volta: all'epoca, la musica dei Superorganism avrebbe potuto trovare posto nel catalogo Grand Royal, ma aggiungo che questo disco è capace di parlare al presente dalla prima all'ultima nota.
Sono dei ragazzi, si affacciano al mondo e realizzano subito che è un gran casino. "Everybody wants you to know their name, everybody wants it, nobody's ashamed" è la prima osservazione, il paesaggio morale nel quale i Superorganism si ritrovano immersi e a cui tentano di reagire. Fa il paio con la traccia successiva: "Out we go into the world of scary eyes and lies / lowkey baby, I’m never feeling quite alright". Quello stesso mondo che non sembra capace di crescerli, difenderli o aiutarli, e che non fornisce altro che via di fuga: "Sweet relief when you grow up and see for yourself: nobody cares". Ma i Superorganism sono qui, nei loro costumi a colori vivaci, supereroi buoni arrivati in nostro soccorso: "We know you feel the world is too heavy / but you can turn it all around if you want". Non è un caso che la canzone che dà il titolo al disco si apra con il verso "When I grow up I wanna be a superorganism". La soluzione non è dentro di noi, se noi restiamo da soli e ci lasciamo trascinare dai giorni: la soluzione siamo noi.
Quei coretti contagiosi di It's All Good o della gioiosa title track che sembrano presi a prestito dai Go!Team; quel passo rilassato di una Prawn Song o del clamoroso singolo Something For Your M.I.N.D. che discendono dai Gorillaz; quella malinconica Reflections On The Screen che rilegge gli Of Montreal per i millennials fintamente apatici nati dopo Tumblr ("It makes me feel alive, sat in bed lit by the light / of a silly gif playing on repeat"); e soprattutto quella voce pigra e indolente (slacker!) di Orono, che non a caso ha dichiarato tutto il proprio amore per Stephen Malkmus, disseminando di inside jokes i testi del disco e regalandoci anche una cover di Cut Your Hair dei Pavement che sembra uscita da qualche jam dei primi Architecture In Helsinki; ecco, tutto questo si somma e si amalgama e si spinge in avanti, come se i Superorganism sapessero qualcosa che noi ancora non conosciamo, non vediamo. Qualcosa che ci parla del futuro, sopra il nostro disordine, la "scena derelitta" e le luci dei router come candele. Non a caso, l'ultimo ringraziamento nei credits dell'album recita "a special shoutout to Tim Berners Lee for creating the internet, our home away from home". Era da tempo che non sentivo tutto questo ottimismo in una band. E la cosa più bella resta la musica (riduttivo a questo punto definirla indiepop) che ne nasce e letteralmente prorompe, piena di luce e stile, travolgendomi.




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