The Empire of Retro and the Hipster International

Retromania disco dell’anno, ok, però anche se sembrerà un po’ snob, non posso dirmi del tutto soddisfatto dall’ultimo saggio di Simon Reynolds (in uscita in Italia a settembre su ISBN). Forse sono poco generoso nei confronti del critico inglese, ma il mio problema è che avevo creduto alla promessa della domanda iniziale: cosa succede quando una cultura arriva a riciclare il proprio passato in un loop sempre più pervasivo e indifferente? Cosa succede quando tutto si schiaccia in un velocissimo e ristagnante presente, dove ogni idea, opera o stile sono diventati accessibili? Credevo che Retromania avrebbe illuminato angoli nuovi là dove altri mi mostrano solo piattume, ma è stato un po’ inquietante scoprire che anche Reynolds alla fine non riesce a uscire dalle due dimensioni dell’oggi.
Tra la premessa e le conclusioni dell’ultimo capitolo c’è una lunga digressione storica, che da un lato serve ad avvalorare la tesi del progressivo e crescente recupero del proprio passato da parte del Rock, ma che dall’altra lascia sensazione di un’eccessiva sintesi. Basta aver letto anche libri non proprio da specialisti come Please Kill Me di Legs McNeil, per la parte sul punk, o qualche testo di Paolo Hewitt, per la parte sul movimento Mod, tanto per citare due casi, per avvertire che Reynolds sta prendendo qualche scorciatoia di troppo.
Tanto è lunga (dispersiva?) la parte centrale, tanto è sbrigativa, in confronto, l’ultima.
Per esempio, mi sembra poco credibile che non sia quasi toccato l'argomento Rete e social network da un punto di vista pratico, dato che è lì che passa la quasi totalità del nostro rapporto con la musica oggi. Lo stallo del presente viene descritto, ma certe sue possibili proiezioni restano sospese (come si rapporta con la Storia chi è adolescente oggi? Quali conseguenze ha sul creare/diffondere musica?). La "fashionizzazione" della cultura Pop, pur essendo una chiave di lettura interessante, viene tirata via in due pagine. C’è una specie di happy-end appiccicato a un certo punto, e poi finisce all’improvviso.
Mi è piaciuto il taglio molto più personale che stavolta Reynolds ha dato alla propria scrittura, e quasi a ogni pagina ci sono riflessioni brillanti che già da sole varrebbero cento citazioni. Reynolds sa puntualizzare con una lucidità e una competenza che hanno pochi pari i nodi concettuali decisivi per la nostra epoca (stavo scrivendo "Scena"). Ma, insomma, alla fine mi resta la sensazione che Retromania mi abbia ripetuto domande che mi faccio già da tempo, documentandole storicamente in abbondanza, ma lasciandomi di nuovo solo di fronte alle risposte.

Commenti

Giacomo ha detto…
l'ho finito anch'io da poco, il primo libro che ho letto su Kindle (che già di per sè è un controsenso). A me è piaciuto proprio per i riferimenti storici (e anche per quelli teorici). Certo che spesso fa sembrare la storia della cultura musicale contemporanea una cosa basata esclusivamente su ciò che dice l'NME dagli anni sessanta ad oggi e la remena parecchio sul fatto che lui ha vissuto il post-punk e pure la scena rave (wow!), ma le parti sul figlio collezionista mi hanno fatto sorridere. Risposte penso che non ce ne siano o che siano davvero difficili da trovare...
Giac
e. ha detto…
Grazie Giacomo, mi fa piacere che almeno uno abbia letto il post, immaginavo sarebbe stato un mattone inostenibile.
Come dicevo, sì lo stile di scrittura più personale è piaciuto anche a me, e mi ha fatto sorridere quando si metteva addosso i lustrini da "reduce". Però da un libro di Reynolds, dalla sua capacità di analisi, eravamo abituati ad aspettarci anche altro. E stavolta toccava un argomento che molte volte su questo blog e sulla rubrichetta di Rolling Stone avevo cercato, con successo ancora minore, di avvicinare anche io. Quindi non so, forse è come dici tu, non ci sono risposte, ma l'esito di Retromania non mi convince lo stesso.
Grazie, ciao,
e.