"CEO discusses the future of music"

Headphones

Parliamo sempre di dischi, film, libri, serie tv... Mettiamo in fila i nomi, aggiungiamo un link, un like, un commento solo per gli amici, mai più lungo di un messaggio. E mentre qui parliamo, il programma sotto sta scaricando. Il disco fisso e anche quello esterno sono quasi pieni ma possiamo fare un po' di ordine, un po' di selezione. Guadagniamo spazio, il tempo lo recupereremo. La to-do-list si allunga e ormai scorre come il flusso dei feed.
Partendo in apparenza da un libro (La Musica Liberata di Luca Castelli, ora non a caso in free download) e da un film (The Social Network), nei giorni scorsi Andrea e Francesco hanno scritto due post molto belli e nitidi: due istantanee - non esaustive ma in qualche modo complementari - del modo in cui capita di guardare un pezzetto del mondo oggi.
Quei due post sono rimasti, in maniera forse non molto sorprendente, senza commenti e discussioni. Chi ha più voglia di pensarci su? In fondo non vedo una vera e propria possibilità di riflessione intorno a questo eterno presente 2.0, anche perché si tende a immaginare tale riflessione come su un piano più alto, fuori dal traffico, "risolutiva", sbagliando. Per questo il titolo di una notizia come "CEO discusses the future of music" mi fa un po' sorridere.
"Ascoltare musica", il caso che qui mi interessa, è diventata un'attività che ha sempre meno a che fare con il semplice ascolto, con l'esperienza di abbandonarsi a un fluire di note e parole, o magari con il piacere di combinare canzoni e momenti della propria vita. Piuttosto, prevale un interminabile "tenersi aggiornati", generico e onnicomprensivo, una "gratificazione" che mi pare distante dalla fruizione (più vanitosa, meno aperta), un "saper collocare" che rispecchia l'accumulo altrove di qualcosa, in attesa che diventi ricordo (e quindi ripescato condito di nostalgia) o del tutto dimenticato per far posto al nuovo.

update: Non l'avevo ancora letta, altrimenti avrei di sicuro aggiunto prima un link all'interessantissima analisi di Rob Horning su PopMatters, "The Taxonomical Drive and Girl Talk", dove afferma tra l'altro che "the music becomes more like information, requiring less of a sensual surrender".

(photo by A Flickr In Life)

Commenti

Anonimo ha detto…
io credo che dica tutto il post di francesco. anche io torno sempre con la mente all'epoca pre-digitale in cui, per dare un'ascoltata a uno dei tanti nomi che leggevo nelle riviste e sulle fanzines, bisognava aspettare che qualcuno, di solito da un'altra città (ero adolescente e vivevo in una piccola città in cui davvero nessuno che io conoscessi personalmente ascoltava la musica che amavo, senza falsi vittimismi) mi spedisse un nastro registrato, perché erano davvero poche le volte in cui potevo permettermi di comprare un disco totalmente a scatola chiusa, e frequentare club in cui si suonasse certa musica era fuori discussione (e fra l'altro non ce n'erano). è solo se andiamo col pensiero a quei tempi che apprezziamo il fatto di poter ascoltare in streaming quello che dalla recensione ci aveva stuzzicato. il feedback dei jesus and mary chain, l'organo degli inspiral carpets, tutte cose che per lungo tempo per quanto mi riguarda sono rimaste pure descrizioni lette in giro (lo so, ero particolarmente al verde). che poi si faccia un cattivo uso di tutta questa quantità di ascolti, è un altro discorso, ma non ho ancora letto il libro di castelli e mi scuso per l'intervento forse irrilevante.

l.
e. ha detto…
Sì L. un aspetto è certamente quello del confronto con quel "prima", per noi che abbiamo almeno una trentina d'anni. Ma mi interessa anche l'altra faccia della questione, quella di tutti gli ascoltatori che vivono oggi immersi in questo fluido presente (anche nostro), perché oltre a non comprenderlo bene non so nemmeno immaginare come si può "evolvere".
Ho aggiunto questa mattina un link a un articolo del sempre lucido e interessante Horning, mi pare metta la cosa in una prospettiva interessante, quasi da "musica come flusso di dati", archivio infinito per il "piacere", per così dire, dell'archivio in sé.
Ma mi sto dilungando troppo, grazie del commento, ciao,
e.
Kekko ha detto…
tra l'altro una delle cose più interessanti che succedono in merito a tutto questo è anche il fatto che nonostante la musica e la fruizione siano radicalmente diverse, l'approccio critico e commerciale rimangano sempre più o meno quelli di prima -così come i tempi: singolino, disco, tour, un paio di spin-off, dimenticatoio, singolino, disco, tour, etc.

che poi è un discorso che ha affrontato indirettamente, e non parlando di questa roba, lo stesso girolami in un post precedente sul crowdsourcing. la stessa idea che in un mondo di relative libertà assolute come questo ci possa essere un consenso in merito a qualsiasi cosa mi manda ai matti, tanto per dire. parlando di musica. stamattina ho trovato 5 years of hyperdub a cinque euro in un negozio di dischi usati.
Anonimo ha detto…
sì, l'articolo di horning è molto molto interessante (idem gli altri scritti che cita).
riguardo al vinile lui ovviamente dice che si tratta di una mistificazione quella della sensazione "realistica" legata al supporto analogico materiale e che porta con sé le tracce degli ascolti e della consunzione. secondo me il ricorso all'epoca dei supporti pre-digitali non consiste tanto in questo, quanto nella questione dell'archivio. mi spiego: anche in epoca pre-digitale si assisteva all'accumulo e all'archivio per il piacere dell'archivio in sé (le collezioni di dischi sterminate...vi è mai capitato di entrare in casa di un collezionista di dischi - o di libri - e di chiedervi "ma li avrà davvero ascoltati tutti, questi dischi che ha accumulato?", lo stesso che ci chiediamo di fronte al nostro disco fisso pieno di file che dobbiamo ancora ascoltare).
la differenza la spiega benissimo, infatti, in seguito. gli archivi digitali, o per meglio dire *l'archivio* digitale totale, cioè *la rete*, ancora più di quelli analogici, rapresenta una potenzialità, "We collect the options on possible experiences, possible possessions". insomma, se prima potevo anche fare lo sborone e comprare un disco e archiviarlo nella collezione senza averlo ascoltato, la potenzialità di quell'ascolto era comunque molto più concreta rispetto alla potenzialità che ho di fronte all'*archivio totale* che mi trovo davanti collegandomi alla rete.

la questione della ricettività ("it is always mediated by some degree of contextual information that prepares us, puts us in a certain state of receptivity that will then allows us to flatter ourselves with our responsiveness"), è, credo, proprio il punto che a voi due interessa di più mettere in luce, ma non voglio dilungarmi oltre.

l.