Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Anche perché, d'accordo, a proposito delle ONG Report ha avuto tutte le ragioni del mondo e rimane una delle poche trasmissioni italiane che mi fa tirare fuori il televisore, ma non bisogna dimenticare che ci sono anche i ragazzi senza la cravatta, quelli per i quali i "progetti" non sono una pratica nello schedario, ma una casa, uomini, donne, bambini, un piatto, un decrepito furgone.

Ciao Latta, un abbraccio di qua e di là dal Mediterraneo.
enzØ + La Laura


Subject: Il giorno più lungo
From: Alessandro

Gaza, 24 ottobre 2002

Tel Aviv mi accoglie con diffidenza, come previsto.
Allo sbarco, primo interrogatorio appena scesa la scaletta dell'aereo, mentre tutti gli altri passeggeri salgono sul bus. Secondo interrogatorio agli sportelli per il visto d'ingresso in Israele. Terzo estenuante interrogatorio al cancelletto tra l'uscita dalla zona frontiera e l'accesso al recupero bagagli.
Quindi setaccio elettronico dei bagagli e metal detector per i nostri giovani corpi.
Il tutto si è "risolto" nel giro di un'ora e mezza: vietato lamentarsi.

Le domande sono le solite: quale relazione lega i compagni di viaggio, quali destinazione, durata, scopo del soggiorno, quali i responsabili, le comunità con cui si prenderà contatto, reiterate fino allo sfinimento...

Quella di martedì 22 ottobre è stata un giornata sfibrante al check point di Gush Katif, nella Striscia di Gaza.
Alle 9,30 del mattino il check point è stato chiuso mentre una colonna di macchine stava percorrendo il tratto di circa 500 metri che separa le due torrette. Le auto sono state perquisite, così come tutti i conducenti e passeggeri. L'operazione ha richiesto diverse ore.
Mentre da entrambi gli accessi le auto si accalcavano in attesa della riapertura, agli sfortunati rimasti bloccati dentro il check point non restava che aspettare, senza cibo e senza gabinetto, fino a dopo il tramonto.
Tra loro anche Sami, nostro fidato collaboratore, che a bordo dell'auto del CRIC si stava dirigendo a Gaza. Difficili anche le comunicazioni, poiché nella zona del check point la rete telefonica mobile palestinese (Jawwal) viene spesso oscurata.
Dopo aver mostrato i documenti, Sami è stato fatto praticamente spogliare e perquisito da capo a piedi. Non c'è stato nessun particolare criterio nei controlli, nessuna selezione: semplicemente chi passava di lì si è beccato questa perquisizione di massa.

In coda dalle 14,30, ho potuto vedere la folla di palestinesi bloccati al di là della torretta, a poche decine di metri da me, che protestava e pretendeva di poter tornare alle proprie case. A tenerli a bada un gruppo di militari israeliani spalleggiati da un blindato. Col passare delle ore la tensione si è alzata e più volte i soldati hanno sparato alcuni colpi in aria per mantenere il controllo della situazione.
Una volta terminate le operazioni di perquisizione (peraltro senza risultato) la situazione è rimasta in stallo per altre ore, con le due aree di accesso al check point letteralmente sommerse da auto e camion. Ad ogni segnale di aperture le auto si muovevano di qualche metro, con l'unico risultato di rendere ancor più intricato il groviglio di mezzi.

Intorno alle 18,30 siamo riusciti a toglierci dall'ingorgo e tornare a Khan Younis per un panino. Alla notizia che stavano riaprendo il check point, siamo tornati in fila, salvo scoprire che le auto bloccate all'interno erano state sì fatte uscire, ma l'ingorgo in entrambe le direzioni rendeva lentissimo il deflusso. Molte persone che stavano attraversando il check point a bordo dei camion al momento del blocco (non si può attraversare il c.p. a piedi) sono state fatte defluire camminando in fila indiana con le mani sopra la testa. Sami ha lasciato il check point a bordo dell'auto del CRIC alle 20,30, dopo 11 ore di attesa.

Intorno alle 22 siamo riusciti a passare anche noi, salvo ritrovarci imbottigliati sull'altro lato, dove sono servite un paio d'ore per uscire dall'ingorgo e riguadagnare la strada per Gaza, che abbiamo raggiunto intorno alla mezzanotte.
Naturalmente in tutto questo non è mancata qualche rissa tra i conducenti, esausti e nervosi, costretti a gestire autonomamente il traffico nella zona immediatamente adiacente alle torrette (area vietata alla polizia palestinese, che deve mantenersi a centinaia di metri di distanza).

Eppure in tutto questo c'è stato chi mi ha offerto acqua, tè, anche dei biscotti...
Un ragazzo in fila mi ha chiesto perchè non andavo a parlare con i soldati per avere il permesso di passare, in fondo sono straniero, potrei farlo.
Siamo abituati a pensare che in un paese chi ci abita abbia libertà di movimento e le restrizioni spettino semmai ai forestieri. Qui accade esattamente il contrario: chi è nato in questa terra è nato profugo e la prospettiva è di morire tale.

Trarre conclusioni su una situazione che si vive "dall'interno" mantenendo freddezza e lucidità è sempre difficile. Perciò le conclusioni le lascio trarre a voi, che la vedete anche da lontano. Non mi interessa oggi entrare nel merito di chi ha ragione e chi ha torto. Io mi limito a registrare quello che vedo e che vivo: questa non è vita, nessuno potrebbe sopportarla a lungo senza perdere la speranza e con essa la ragione. Così si tratta il bestiame, non le persone.
"La verità - ci diceva qualche giorno fa un soldato israeliano a Erez (ingresso nella Striscia di Gaza) - è che i palestinesi sono tutti animali".
La strada del dialogo mi sembra molto lontana...

Alessandro

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