I’ve started something I couldn’t finish

Non so se essere incazzato o trovare tutta la faccenda (poca cosa, in fondo) piuttosto divertente.
Sì, sono incazzato (con me stesso) perché non finisco mai le cose che comincio, e così se c’è qualcosa che va storto poi non posso lamentarmi e dire che io la mia parte l’avevo fatta.
Magari fra tre mesi lascerò perdere anche questo blog e mi iscriverò in palestra.
Ma forse c’è anche un punto di vista più leggero, quasi buffo: sono coincidenze, sono pensieri nell’aria: è normale che diverse persone se ne approprino nello stesso momento. Anzi: è di stimolo e conforto.

La questione è che io, come tanti, scrivo. E do una grande importanza a quello che scrivo. Magari non finisco nemmeno una cosa, e già sono lì a ragionare su quale posto avrà nel mondo. Lo fate anche voi, no? (ditemi di sì, vi prego).
Credetemi, vedo perfettamente il patetico della situazione ma, insomma, ognuno coltiva le proprie nevrosi come meglio può.
Così, capirete, ci sono rimasto di ghiaia quando sull’ultimo numero di Rumore ho letto queste parole di Fabio De Luca:

«Rispetto al 1981, ve ne sarete accorti, i tempi si sono dilatati: si vive più a lungo (lo dicono i medici), si è giovani fino a 35 anni (lo dicono i sociologi), si consuma in maniera più critica (lo dicono gli esperti di marketing). […] Ma succede anche un’altra cosa strana: la continuità emotiva, stilistica linguistica, affettiva di questi ultimi vent’anni di storia della cultura pop (o della cultura tutta) è assolutamente più contigua rispetto a quella degli analoghi vent’anni precedenti. In altre parole: tra il 1981 e il 2001 ci corrono gli stessi anni che correvano tra il 1961e il 1981. Solo che il 1981 è oggi, al tatto, molto più “vicino” nello spazio e nel tempo di quanto non fosse il 1961 nel 1981».

Il tema è interessantissimo, almeno per me (che considero De Luca un notevole saggista – a parte quando si trascina troppo dentro questa cosa della dance), ma io a metà frase ero già altrove.
Un paio di mesi fa (Jonathan mi può essere testimone) avevo cominciato l’ennesimo racconto. Tra gli appunti c’era più o meno questa battuta di dialogo:

«È inquietante: sono passati vent’anni da quando i Cure incisero Boys don’t cry. Quand’ero piccolo, vent’anni era la distanza che separava i miei genitori dagli anni Sessanta, il passato per eccellenza. Però quelli, mi sembra, erano proprio il passato, e il presente era la vita, un’altra cosa. C’era una separazione.
Adesso, se mi metto a pensare a una cosa come le canzoni che mi piacciono o che vorrei ballare a una festa, Boys don’t cry viene fuori per forza. Ma non per revival o nostalgia (all’epoca avevo cinque o sei anni): anche se è una canzone di vent’anni fa la sento parte del mio presente, e così molte altre cose. Intendo dire che nella vita che vivo non avverto più quella separazione tra ciò che mi circonda e ciò che non è più presente. Sembra di nuotare in una soluzione liquida che ci tiene a galla e ci nutre, ma che è anche opaca e ci impedisce di vedere. Non c’è più distanza nel tempo fra quel tempo d’infanzia e oggi. Questa interminabile adolescenza».

Lasciamo stare, per cortesia, il valore letterario di queste mie parole. Mi interessava solo dire quello che pensavo allora, quanto più direttamente possibile.
Non vorrei ripetermi, ma è inquietante. Quasi le stesse date, quasi lo stesso ragionamento e, soprattutto, quasi lo stesso sentimento… régaz, ma cos’è? Matrix?

Poi lo so, i blog con troppi sfoghi personali sono un po’ noiosi, però magari mi piacerebbe che qualche dottorando in filosofia venisse qui, a consolarmi parlandomi di Zeitgeist e cose così…

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